Secondo Borges il deserto è un luogo in tutto assimilabile ad un labirinto in quanto rappresenta un’allegoria della complessità del mondo, la cui intelligibilità non è afferrabile attraverso la sola ragione. E il Parco Nazionale di Joshua Tree nel sud della California, e il paesaggio che lo circonda, con le sue spettacolari formazioni rocciose, la rossa terra del deserto e l’immensità dei suoi cieli stellati sembra un grande vuoto in cui è facile perdersi se non accompagnati da una coscienza – dell’Uomo e della Natura – diversa rispetto a quella che caratterizza gli ambienti antropizzati: qui, l’architettura si introduce come un’”intrusa” che deve fare i conti con un equilibrio secolare quasi sovrumano.
8 case nel deserto di Joshua Tree
Nell’ultimo trentennio architetti, paesaggisti e visionari si sono cimentati con l’idea di abitare il deserto, luogo sfidante per eccellenza dove rivedere il proprio rapporto non solo con la natura ma anche con sé stessi.
© Tom Bonner. Source: "Architectural Record Houses of 1990″, Mid-April 1990
© Tom Bonner. Source: “Architectural Record Houses of 1990″, Mid-April 1990
Foto Brad Lansill via archdaily
Foto Brad Lansill via archdaily
Foto W. Garett Carlson via archdaily
Foto W. Garett Carlson via archdaily
View Article details
- Chiara Testoni
- 17 febbraio 2022
Molti architetti si sono cimentati nella realizzazione di abitazioni nel deserto: interventi simbiotici con il paesaggio (Joshua tree boulder house, Bonita Dome, Invisible House) o che si distaccano deliberatamente dal contesto (Rosa Muerta); che evocano inquietanti suggestioni zoomorfe (Kellogg Doolittle House) o volumetrie astratte e ascetiche (Joshua Tree Residence); che interpretano l’architettura come segno del territorio a cui l’opera costruita si rapporta rispettosamente per forme e colori (Monument House, Folly). Per quanto ci si senta minuscoli in rapporto alla vastità, anche psicologica, dei suoi spazi, il deserto – come suggerivano gli U2 nell’album The Joshua Tree – è una fonte inesauribile di fascinazione dove trovare, lontano da tutto ciò che il mondo a volte propone di orribile, una via di fuga, una libertà, una felicità nel nulla.
Progettata negli anni '80 per l'artista Bev Doolittle e il marito dall'architetto Kendrick Bangs Kellogg, discepolo di Frank Lloyd Wright, la casa di 4.643 mq – il cui completamento ha richiesto circa vent’anni - si erge dal deserto della California come un manufatto scultoreo a metà tra un’astronave aliena e il guscio di un aracnide con aculei pronti a ghermire. Nonostante l’aura vagamente zoomorfa propria dell’architettura organica, che potrebbe incutere una certa inquietudine, l’abitazione è una dichiarazione d’amore alla natura selvaggia del deserto ed un luogo quasi sognante dove vivere in comunione con il paesaggio. Alle forme morbide e arrotondate, come un ciottolo del deserto, del volume principale, si contrappongono le geometrie spigolose dell’esoscheletro di vertebre di calcestruzzo che si aprono a ventaglio per sostenere la copertura da cui filtra una luce diffusa; all’interno, rocce del luogo e cascate integrate nelle strutture creano un senso di continuità tra interno ed esterno, a segnalare l’intima comunione tra artificio e natura.
L’edificio, progettato come casa di vacanze, è caratterizzato da tre volumi cubici con aperture irregolari e asimmetriche che ricordano vagamente alcune scenografie espressioniste, qui depurate dalla loro aura crepuscolare e reinterpretate in chiave ludica sotto la luce tagliente del deserto. Le forme monolitiche, quasi primordiali, dai toni verde acido, rosa salmone e blu pallido, ripropongono deliberatamente i massi e le forme del terreno circostante; negli interni, i giochi cromatici e le geometrie irregolari creano spazi vivaci che si aprono con visuali strategiche sul paesaggio.
L’abitazione, su disegno dell’architetto di Los Angeles Robert Stone, sovverte nettamente i canoni di un’architettura in relazione con il contesto. Se il deserto è materia scabra e irregolare disegnata dai venti e dal sole, l’architettura si erge al contrario come gesto prettamente antropico, con volumi lineari e geometrie pure in antitesi alle forme rocciose, grevi e massive del paesaggio circostante. L’edificio è caratterizzato da un’unica tonalità dominante, il nero, che conferisce all’opera un’aura di sobria solennità, tra un design minimale e qualche concessione crepuscolare nei decori floreali dal gusto un po’ mortifero.
L’opera dell’architetto paesaggista Garett Carlson rispecchia la suggestione evocata dalle affascinanti formazioni rocciose del Joshua Tree National Park: l’edificio sembra un masso che si erge dal suolo e da cui magicamente scaturisce una casa. Una finta roccia ricopre frontalmente l’intera residenza che, sugli altri prospetti, conquista le forme proprie di un’abitazione più composta e finemente progettata e rifinita in metallo, legno, cemento e vetro. Il contrasto tra gli esterni materici e ruvidi e gli interni dal linguaggio contemporaneo minimale ed elegante conferisce un’anima “duale” all’abitazione. All'interno, porte in vetro a scomparsa dal pavimento al soffitto si aprono per creare un'ampia distesa che collega la zona giorno al paesaggio circostante.
Il “micro-villaggio”, che comprende la casa e lo studio dell’artista Lisa Starr, abitazioni per visitatori e spazi comuni (servizi e cucina), è realizzato attraverso la tecnica del Superadobe ideata dall'architetto Nader Khalili e dall’istituto Cal-Earth. La tecnologia contempla l’utilizzo della terra battuta raccolta in sacchi di juta o prolipropilene per realizzare costruzioni – generalmente con volume a cupola - a basso impatto ambientale, basso costo e di veloce realizzazione, anche per soddisfare esigenze abitative in situazioni emergenziali. Una soluzione che bene si adatta alla zona sismica della California e allo spirito del deserto diventando quasi un elemento naturalmente integrato nel paesaggio: qui benessere microclimatico e confort abitativo sono garantiti dall’inerzia dei materiali naturali - calcestruzzo e terra degli involucri – e l’atmosfera rustica ma accogliente rivela una profonda sintonia con la natura.
Una fattoria abbandonata è stata recuperata e trasformata in un accattivante luogo di villeggiatura tra la terra rossa e le montagne del deserto. Le due strutture – di cui una ricostruita dal sedime di un edificio risalente agli anni ‘50 e una nuova – sono rivestite esternamente in acciaio cortén, un materiale caldo e ruvido che nella sua ossidazione ricorda i toni del deserto circostante e internamente in compensato, evocando uno spazio semplice ma confortevole. I due edifici sono collegati da una piattaforma in legno con vasca da bagno all'aperto costituita da un serbatoio in metallo galvanizzato, più comunemente usato per abbeverare il bestiame. La cabina più grande ospita al piano terra una zona giorno con cucina, servizi ed un soppalco con camera da letto; la cabina più piccola comprende al livello inferiore un magazzino e sul soppalco una camera da letto a cielo aperto, per dormire sotto il cielo stellato del Joshua Tree.
Un fiore che sboccia nel deserto. Così appare questa scultorea struttura, composta da 14 container disposti con angolazioni differenti che ospitano ciascuno una funzione diversa: in circa 200 mq si distribuiscono cucina, soggiorno, studio, tre camere da letto, tre bagni e una spaziosa terrazza. I volumi puri dal bianco abbacinante si aprono in testata con ampie vetrate che offrono viste spettacolari sul paesaggio. All’interno, le tonalità chiare, punteggiate da solo qualche segno cromatico negli eleganti elementi d’arredo, favoriscono la luminosità degli ambienti. L’edificio è progettato all’insegna dell’eco - sostenibilità: i pannelli solari in copertura consentono di soddisfare autonomamente il fabbisogno energetico di tutto l’edificio.
La residenza, ideata dal produttore hollywoodiano Chris Hanley insieme al designer Thomas Osinski, ricalca a tutti gli effetti le ispirazioni del suo creatore appassionato di arte e architettura che, animato da una sensibilità filmica, ha concepito una casa come uno schermo su cui proiettare la sfolgorante bellezza del Joshua Tree National Park. La casa è un vero e proprio grattacielo adagiato in orizzontale sul terreno, con uno scheletro strutturale in acciaio e un involucro esterno in lastre di vetro temperato riflettente. Gli interni sembrano un set cinematografico: i circa 500 mq del piano terra sono articolati attorno ad una piscina indoor di 30 m di lunghezza che termina da una parte con un muro per la proiezione di film, dall’altra con una cucina attrezzata per il catering. Al piano superiore, si collocano una generosa zona pranzo in collegamento visivo con il paesaggio e le quattro stanze da letto. Un monolite che si mimetizza nel territorio ma che non scompare come un miraggio.