La Contessa Luisa Albertina di Tesserata possedeva una piccola isola nell’arcipelago Veneziano. Di generazione in generazione, la sua famiglia aveva mandato in fumo la maggior parte delle proprie sostanze per via di una serie di investimenti azzardati e di un’incapacità gestionale. Quando l’influenza spagnola le portò via l’unico fratello e i genitori, la Contessa divenne l’ultimo membro del suo casato.
Nel 1930 la Contessa conobbe il Conte J.B. d’Haussonville, aristocratico francese piuttosto malmesso in quanto a denaro e salute, ma con una passione contagiosa per l’arte. Si sposarono nel giro di una settimana. I due avevano urgente bisogno di denaro, e così cominciarono a lavorare come aristocratici a pagamento. Dopo una serie di partecipazioni all’apertura di casinò liguri di seconda categoria, si scoprirono affascinati dal blackjack e decisero di dedicarsi al gioco d’azzardo. La Contessa, dotata fin da giovane di una straordinaria memoria matematica, aveva finalmente trovato il modo di sfruttare il suo talento contando le carte da gioco. Diventati amici intimi di diversi esponenti dell’avanguardia parigina, si trasformarono rapidamente in collezionisti d’arte, investendo tutti i proventi del gioco d’azzardo in opere di Brancusi, Duchamp, Picabia o Hans Arp.
La villetta veneziana della Contessa, da anni in stato di degrado, era stata destinata a ospitare la collezione d’arte dei due conti, un’unica opera per stanza: non importa se si trattasse di una fotografia di Man Ray o di un dipinto incompleto e mai autenticato di Giacometti. Quando tornavano a Venezia, il conte e la Contessa dormivano nell’unica stanza della casa dotata di camino e vetri alle finestre. Non fu la scura e maleodorante muffa dei pavimenti, ma una vernice chimica sperimentale usata in una delle opere della loro collezione, ad avvelenare e porre prematuramente fine alla vita di J.B.
Dopo la morte del conte, nessuno fu più autorizzato a visitare l’isola. La Contessa smise di rispondere a lettere e telegrammi. Fu verso la metà degli anni cinquanta che una strana donna, ben vestita ma in evidente stato di alterazione, apparve in un casinò di Nizza con un piccolo quadro di Mondrian sotto il braccio. Scambiò l'opera per una montagnetta di fiches e al mattino seguente riuscì a vincere una piccola fortuna. Il giorno dopo prenotò un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti.
Trascorse i decenni successivi tra il Nevada e New York. Viveva in modo frugale, e tutto ciò che guadagnava nei casinò di Las Vegas lo investiva in opere d’arte e oppiacei. La Contessa sognava di costruirsi una nuova casa sull’isola. Chiese a un noto curatore di consigliarle una rosa di architetti che facesse al caso suo. Intrattenne lunghe conversazioni telefoniche con due dei progettisti suggeriti. Il primo, un austero tedesco che insegnava alla Cornell, smise di rispondere alle sue chiamate dopo settimane di conversazioni esasperanti. Il secondo, un poeta-architetto più affabile e con poca esperienza nella costruzione, le inviò una serie di quaderni pieni di schizzi e bellissimi acquerelli della casa che aveva in mente, ma non riuscì a fornire alcuna indicazione in merito ai costi. La Contessa smise di presentarsi agli appuntamenti, e così, anche la loro conversazione si estinse.
Nel frattempo, a causa dell’abuso di alcol e narcotici, la Contessa perse abilità nel conteggio delle carte e cominciò ad accumulare debiti di gioco. L'ultima volta che la Contessa uscì vincitrice da un casinò con del denaro in tasca fu nel 1974. Bandita da tutti i casinò dell'Europa occidentale e delle due Americhe, cominciò a girare tra gli stati al di là della cortina di ferro. In meno di un mese, sbancò il tavolo ovunque, dall'Albania alla Cecoslovacchia. A Belgrado conobbe uno scultore rumeno sull’orlo della miseria, che aiutò ad attraversare il confine a Trieste in cambio di futuri servizi professionali.
Lo scultore convinse la Contessa ad affidargli la cura delle opere d’arte rimaste. Inoltre, le propose di costruire lui stesso l’edificio da lei tanto desiderato: una casa con dodici piccole stanze per le opere d'arte più preziose, sollevate da terra per tenerle lontane dall’umidità. I quaderni di schizzi e acquerelli dell'architetto americano furono per lui una guida più che sufficiente.
Si dimostrò un artigiano favoloso, e in meno di un anno, la casa era finita. Lo scultore, intanto, aveva iniziato a occuparsi della villa di famiglia, restaurandola stanza per stanza. Il restauro sarebbe andato avanti a spron battuto se non fosse stato per un tragico incidente: mentre tentavano di sostituire una trave di legno al primo piano, l'impalcatura e il muro cui questa era fissata crollarono addoso allo scultore e ai due anziani domestici, schiacciandoli a morte.
Dopo l’incidente, la Contessa visse ancora qualche mese in completa solitudine, ricorrendo nuovamente a un mix letale di antidolorifici, alcol e antidepressivi. Nessuno conosce il giorno della sua morte. Quando la polizia sbarcò sull'isola delle opere d’arte non vi era più traccia. Nel testamento, la Contessa aveva donato tutti i suoi beni alla città di Venezia.
Ci volle quasi un decennio perché i lenti burocrati veneziani valutassero il suo lascito. Una villetta in parte crollata di 13 stanze su due piani e quattro edifici annessi, di cui uno abusivo, per un totale di 656 mq. Una biblioteca con 5.112 libri. Pochi gioielli. Nessun mobile di valore o antichità. Nessun atto, documento o lettera. Un'isola artificiale di 7.937 metri quadrati.
L’isola fu messa all’asta dal Comune al prezzo di 1,2 milioni di euro.
Arrivò un’unica offerta telefonica, fatta da una società di intermediazione immobiliare tedesca, che si aggiudicò l’isola al prezzo base. Specializzata nella compravendita, affitto, sviluppo immobiliare e valutazione di isole private, la società tedesca rivendette l’isola della Contessa (al doppio del prezzo) verso la metà degli anni novanta. Il nuovo proprietario era un eccentrico "collezionista" di questo particolare genere di beni, il quale, però, a causa di un divorzio particolarmente oneroso, il collezionista di isole rimise la proprietà in vendita nel 2007.
Fu acquistata per 3,6 milioni di euro da un consorzio italiano di imprenditori cattolici. Al momento dell’acquisto, il consorzio aveva già in mano un progetto preliminare per lo sviluppo dell’isola nel settore dell’ospitalità. Nel 2012 il Comune diede il via libera a una variante urbanistica che consentiva la realizzazione sull’isola di una struttura turistica con centro benessere e ristorante nonché di un glamping di lusso composto da 12 unità abitative. Nel 2018 il consorzio dichiarò bancarotta. Le sue proprietà furono confiscate dal Comune e due anni dopo la piccola isola andò nuovamente all’asta, questa volta alla metà del prezzo.
L'isola fu acquistata da un imprenditore siciliano. Sua intenzione era portare a compimento il progetto di glamping già approvato dal Comune. Le demolizioni avrebbero dovuto cominciare all’inizio di quest’anno, ma la crisi sanitaria costrinse l’impresa a posticipare i lavori.
Nella primavera del 2020, Giovanni e Marialuisa, due studenti dello IUAV, rimasero particolarmente colpiti da un bizzarro edificio postmodernista scoperto durante un sopralluogo su un isolotto. Assomigliava vagamente a un vecchio progetto speculativo: il bizzarro edificio era senza ombra di dubbio un progetto di John Hejduk.
A quanto pare, Hejduk aveva riciclato il progetto originariamente concepito per la Contessa, dotandolo di una nuova narrazione e pubblicandolo con il nome di Casa di Colui che si Rifiutò di Partecipare.
Contattammo gli attuali proprietari dell’isola, chiedendo loro il permesso di visitare l’edificio insieme a un fotografo professionista. Ci proposero di usare l’edificio a nostro piacimento per un periodo di tempo limitato, offrendoci anche un piccolo contributo per consentire a dodici architetti internazionali, scelti da noi, di svolgere una residenza artistica di una settimana all’interno delle dodici stanze della casa.
Tutto ciò a condizione di firmare un contratto che stabiliva inequivocabilmente che, uno: l’intera documentazione del progetto sarebbe stata mantenuta segreta fino a che l’edificio fosse stato interamente demolito; e due: che i risultati della residenza artistica sarebbero stati esposti durante la 17a Biennale di Architettura di Venezia.
La demolizione della wall house veneziana di Hejduk è iniziata il 21 novembre 2020 ed è stata completata nei primi giorni di dicembre.
Giovedì 17 dicembre, l’Unfolding Pavilion svelerà al pubblico le dodici installazioni site-specific realizzate dagli architetti invitati a passare una settimana di residenza artistica negli spazi della casa della Contessa. Le loro opere, realizzate in completa solitudine, sono l'unica testimonianza rimasta dell'incredibile e triste storia della solitaria Contessa e della sua Casa di colui che si rifiutò di partecipare.
Questo testo è stato scritto per accompagnare la terza edizione dell'Unfolding Pavilion, che aprirà digitalmente giovedì 17 dicembre alle 18:00 su ritualsofsolitude.com. Dopo l'inaugurazione online, la seconda parte della mostra sarà fisicamente visitabile in occasione della prossima Biennale di Architettura di Venezia. L'Unfolding Pavilion è un progetto curatoriale di Daniel Tudor Munteanu e Davide Tommaso Ferrando, volto a occupare temporaneamente edifici normalmente inaccessibili ma architettonicamente significativi.