Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1045, aprile 2020.
Sfidando la monotonia del paesaggio della città, dove le pressioni per raggiungere gli obiettivi di valorizzazione e ottenere il massimo profitto immobiliare hanno creato una pletora di tipologie residenziali ripetitive e banali, Lina Ghotmeh ha realizzato il suo primo edificio a Beirut, la sua città, all’insegna della sperimentazione architettonica. Sulla scorta dell’impostazione progettuale elegante e ponderata che caratterizza le sue opere precedenti, Ghotmeh è riuscita a instillare in questo manufatto a destinazione mista la sua attenta competenza in materia di esperienza spaziale, tecniche costruttive e indagini volumetriche, realizzando un edificio di qualità scultorea tutta particolare.
Non è cosa da poco, per una giovane architetta, sfidare il mondo dell’edilizia residenziale di Beirut, dove un pugno di immobiliaristi – esclusivamente maschi – controlla il mercato residenziale di alto livello. Qui di rado gli architetti di talento ricevono l’apprezzamento che meritano, dato che troppo spesso l’esperienza dello spazio e la sua importanza per gli ambienti della vita vengono messe in ombra dal valore dell’appartamento come investimento finanziario a fini di profitto. Se non fosse stato per la particolarissima storia dell’edificio, commissionato dalla famiglia di Pierre el Khoury, celebre architetto libanese scomparso, è poco probabile che a Ghotmeh sarebbe stata offerta un’occasione. La decisione della famiglia di costruire sul sito dello studio, a suo tempo famoso, un edificio a destinazione mista, che ospitasse gli appartamenti dei membri della famiglia, una galleria d’arte e alcuni altri appartamenti per recuperare il costo degli investimenti, ha fornito l’inconsueta opportunità.
Vanno però anche riconosciuti i meriti dei progettisti e degli investitori che hanno aderito al programma, alcuni dei quali fanno parte della rete di sostenitori che ha valutato le potenzialità del luogo.
A soli 100 m dallo sfarzo del centro di Beirut, il contesto di questo edificio conserva parecchi segni della ricchezza della storia cittadina, che sono invece stati ‘risanati’ nella ristrutturazione dei quartieri vicini. Le case della zona, retroterra storico dei servizi destinati al porto principale di Beirut e a chi ci lavorava fino all’ampliamento all’epoca del Mandato francese, ospitano uffici doganali per l’importazione. Fino a poco tempo fa l’area era anche nota per le sue strade a luci rosse. Gran parte delle architetture è di cemento grigio e risale agli anni Cinquanta, costruita all’epoca in cui l’altezza degli edifici era ancora sotto controllo, ed è di semplicità modernista, con piani uniformi che ripetono i medesimi schemi geometrici.
Dietro il nuovo edificio di Ghotmeh, una vecchia struttura residenziale parla di un’altra epoca, quella degli inizi del secolo passato, presentandosi con balconcini e finestre bianche decorate. L’edificio, fatiscente e ormai abbandonato, è servito da motel durante la guerra civile e il Dopoguerra. Nel contesto, Stone Garden – questo il nome della costruzione – appare la più recente aggiunta a una quantità di nuove realizzazioni sparse destinate a clienti che apprezzano il progetto, tra cui un paio di ristoranti d’avanguardia, negozi di design e un bar. L’edificio, con i suoi 13 piani, si distingue in molti modi nel panorama cittadino: accoglie una galleria d’arte e una serie di appartamenti in un quartiere di servizi, spicca con i suoi toni color terra in un contesto stradale grigio e inonda ogni piano di verde lussureggiante. La forma giocosa delle aperture della facciata spezza la tristezza del tipico alzato grazie a grandi contenitori di piante, ciascuno con il proprio carattere, a mediare tra la quieta pacatezza degli spazi interni e la frenetica intensità della realtà della città all’esterno.
Il rivestimento dell’edificio, che molti recensori hanno paragonato al paesaggio devastato del Dopoguerra cittadino è, in realtà, un materiale di alto spessore accuratamente lavorato, che innesca un dialogo tra gli spazi interni e l’eclettico paesaggio urbano della città. Per arrivare a questo risultato il progetto ribalta la pratica locale di colmare gli angoli residui con contenitori di piante. Al contrario, i contenitori fanno parte dello spazio di ogni piano, sono elemento integrante dell’esperienza architettonica, progettati in rapporto con la loro collocazione nell’edificio e con i piani circostanti della strada. Il risultato è una massa di terra lavorata dalle qualità biologiche, punteggiata irregolarmente da profonde finestre che riflettono sulla strada le esperienze di vita di ciascun piano.
Ci pareva troppo troppo banale scavare nell’archeologia urbana di Beirut e nella sua storia bellica recente per spiegare il contributo di questo progetto all’architettura contemporanea della città.
L’edificio evita la nostalgia delle repliche formaliste e delle allegorie di una violenza che non ha mai veramente lasciato la città
Al contrario, l’edificio evita la nostalgia delle repliche formaliste e delle allegorie di una violenza che in realtà non ha mai veramente lasciato la città. Anzi, adotta la stratificazione e l’eclettismo delle morfologie cittadine e vi affianca la sua nuova, elegante, se pur discreta, presenza. Le vedute sono lontane dalle prospettive ‘originali’ del resto del mercato di alta gamma, che si sottopongono a spettacolari contorcimenti per catturare piccole inquadrature di un sedicente tranquillo paesaggio di alberi, spiagge e mare. Al contrario, Stone Garden adotta il panorama industriale del porto, il ritmo della vicina autostrada e la confusa vista dei motel fatiscenti del quartiere. Apre le sue ampie finestre a collegare le disparate e incoerenti vedute della città a ogni piano e le trasporta dentro, al centro degli ambienti. Questi panorami danno a ciascun appartamento un’identità individuale. La strettezza e la geometria irregolare del lotto vengono così ribaltate a vantaggio del progettista, permettendo a ciascun appartamento di diventare un epicentro delle contraddizioni urbane di Beirut.
Va apprezzato il lavoro rigoroso che ha portato a progettare la facciata secondo modi artigianali e sperimentali, che sfidano i limiti del locale mercato dell’edilizia e delle sue competenze. Invece di ricorrere al rivestimento della facciata quasi unanimemente adottato negli edifici di questo genere, Ghotmeh ha lavorato con un gruppo d’impresari e muratori giovani e capaci, desiderosi di fare qualcosa di nuovo con i mezzi disponibili.
Ciò che, nelle parole dell’architetta, è iniziato con “delle strisciate su una forma di argilla” si è trasformato in dozzine di sperimentazioni di cantiere, grazie alle quali una miscela di terra e cemento ha preso forma con l’applicazione lineare di stampi decorativi di acciaio appositamente realizzati. Ghotmeh ha insomma sfidato la tendenza dell’edilizia a basarsi su materiali standard, ha scartato gli stampi ordinari e ha invece intrapreso un lungo percorso di prove e rifacimenti che, per materializzarsi nella sua forma finale, ha richiesto la consapevolezza collettiva di professionisti del progetto e di lavoratori dell’edilizia. Invece di colare il materiale in una determinata cassaforma, l’involucro dell’edificio è stato passato al pettine con uno stampo di acciaio inossidabile. Il risultato è una facciata rigata che sembra fatta di terra, punteggiata da momenti verdi, che dà una qualità armoniosa e tattile alla verticalità dell’edificio, distinguendolo con discrezione dagli edifici vicini senza introdurre stonature aggressive nel tessuto urbano.
Si può certamente rimproverare all’architetta di continuare a contribuire alla gentrificazione di una delle ultime enclave residenziali a buon mercato della città. Secondo un percorso ben noto agli studiosi di urbanistica, l’edificio segue il percorso dei bar, dei caffè e degli spazi del design aperti da qualche anno. Se non fosse per alcuni ritardi nella costruzione, l’edificio sarebbe arrivato in tempo per entrare nella finestra di lucrativi profitti che ha preceduto il recente crollo del mercato di Beirut. Non c’è dubbio che i 3.500-4.500 euro al m2 richiesti s’inquadrino in uno schema per cui, in un Paese dove il salario minimo arriva a stento ai 400 euro, le superfici residenziali urbane sono funzionali alle tasche di chi va in cerca d’investimenti sicuri in un’epoca di disastri finanziari, invece che alla domanda di alloggi urbani per le famiglie.
Tuttavia, il fatto che l’edificio sia stato progettato avendo in mente un gruppo di eredi, proprietari del terreno e progettisti, lo tutela dalla diffusa carenza di affittuari che affligge il resto dell’edilizia di alta gamma della città. Ne garantisce la ragione costruttiva, soprattutto dato che il progetto accurato e l’esperienza senza paragoni dei suoi appartamenti incoraggeranno più di un committente a scegliere questo luogo come abitazione, nella misura in cui ciascuno se lo potrà permettere.
In conclusione, Ghotmeh ha risposto brillantemente alla sfida di dare un senso all’edilizia in una situazione difficile, dimostrando che l’architettura può avere un significato nonostante le pressioni del mercato. Dimostrando, oltretutto, che è ancora possibile – una volta di più – reinventare Beirut, adottandone le contraddizioni e aggiungendovi un’ulteriore stratificazione, in armonia e con coraggio.
Mona Fawaz insegna Urban Planning and Policy all’Università americana di Beirut, è direttrice e fondatrice del Beirut Urban Lab.
Carla Aramouny è architetta e docente all’Università americana di Beirut e direttrice di ArD TechLab.
- Progetto:
- Stone Garden
- Luogo:
- Beirut, Libano
- Architetti:
- Lina Ghotmeh; dal 2016, Lina Ghotmeh — Architecture
- Strutture:
- CODE Consultants & Designers
- Ingegneria elettrica e meccanica:
- AME Consultants
- Direzione lavori:
- BATIMAT Architects
- Consulenti:
- Habib Srour (trasporti verticali), Clement Grinion (aperture)
- Committente:
- RED Property Development
- Superficie sito:
- 382 mq
- Superficie totale costruita:
- 6.413 mq
- Date progettazione:
- 2010-2019
- Date costruzione:
- 2017-2020