Esistono pratiche che avvicinano contesti della progettazione solo apparentemente lontani tra loro. Un esempio è quello della progettazione partecipata, un approccio innovativo alla realizzazione di nuove idee e prodotti, con un’apertura notevole nella fase progettuale. La troviamo nell’architettura, ma anche nell’ambito dello svilppo dei videogiochi. Il game design “dal basso” ha avuto diverse sue espressioni nel corso degli anni, rendendo sempre più sottile il divario tra chi un gioco lo compra (fruitore) e chi lo produce (committente), con tutte le figure presenti nello sviluppo portate a interfacciarsi costantemente.
Nonostante la personalizzazione offerta ai giocatori sia una delle caratteristiche salienti del game design degli ultimi anni, la partecipazione alla modifica da parte degli utenti ha radici più antiche. Una delle sue prime espressioni è sicuramente quella offerta dal modding, termine che in sintesi racchiude tutte quelle pratiche d’intervento da parte del giocatore nella trasformazione di un prodotto creato da altri e non previste dal gioco originale. Le cosiddette mod possono essere di molti tipi, a seconda del materiale di partenza su cui si va a intervenire e su ciò che si desidera ottenere. Possono coinvolgere prettamente la componente estetica di un gioco (l’aspetto dei personaggi, l’ambiente che li circonda) o le sue meccaniche (l’aggiunta di una maggiore possibilità di scelta nel corso dell’esperienza, l’interfaccia utente), passando dalla modifica piccola e quasi invisibile a un rivoluzionamento totale rispetto al prodotto in vendita sugli scaffali.
La rappresentazione dello spazio come strumento per metabolizzarlo
Giancarlo De Carlo diceva che “l’architettura del futuro sarà caratterizzata da una partecipazione sempre maggiore dell’utente alla sua definizione organizzativa e formale”. La dialettica tra mondo reale, mondo virtuale e architettura ha largamente influenzato la realizzazione delle mod. Per esempio, l’utente 1337 Doomer ha preso ispirazione dall’architettura brutalista, che dimostra un’affinità elettiva incredibile con l’ambiente nativo del gioco, per realizzare Brutalist Doom: un’esperienza ludica di solitudine e alienazione. In questa riscrittura, una architettura concepita per ottimizzare la quotidianità di una moltitudine di persone viene totalmente stravolta, inserendo una singola persona all’interno di uno spazio enorme e indefinito, ricco di minacce in ogni dove. Le superfici diventano incubi grigi come il cemento a vista, degli ambienti sproporzionati, fuori scala per l’individuo. In quell’immenso spazio grigio, i colori restano appannaggio esclusivo dei mostri originali del gioco (che continuano a esserci e a infestare tanto gli angusti corridoi quanto gli immensi spazi aperti), con il sangue e la violenza che ne escono ancor più enfatizzati.
In Autobiographical Architecture, un utente chiamato JP LeBreton ha sfruttato Doom 2 per raccontare la sua vita quotidiana. In questo caso specifico non stiamo parlando della formalizzazione di stilemi universali, ma della pedissequa osservazione e riproduzione di un’esperienza autobiografica, per poi condividerla con altri giocatori. Non c’è più nulla di misurabile, non c’è più lo “stile” in quanto tale, ma un racconto romanzato volto a offrire un’esperienza narrativa più che una mera suggestione visiva. Come si può immaginare molta ispirazione per le mod è arrivata da film, libri e comics, da Alien TC — la mod che ha coniato il termine total conversion, riscrivendo un mondo di gioco ispirato al film Alien di James Cameron (1986), a The Darkest Hour (sette livelli ispirati a Guerre Stellari) Batman Doom e così via fino a Paranoid, una conversione ispirata a un altro (celebre) videogioco, Half Life (Valve, 1998). Tutti mondi progettati da utenti e messi a disposizione di altri perché li potessero vivere.
Doom, un gioco che nasce modulare e riprogettabile
La serie di Doom, tra le più iconiche e longeve della storia dei videogiochi fin dagli anni Novanta, è uno degli esempi più interessanti di modding e di progettazione partecipata da parte degli utenti nel mondo dei videogiochi, perché è stato uno dei primi prodotti a essere smontati e rimontati in modo importante. Nel 1993, un’azienda di videogiochi del Texas, la Id Software, rilascia la prima versione del titolo, giocato da quasi venti milioni di persone nel giro di un paio di anni. Memore della risposta al precedente gioco prodotto, Wolfenstein 3D, per il quale alcuni giocatori avevano tentato delle personalizzazioni, il lead programmer John Carmack impostò la lavorazione del gioco in modo “aperto”, in modo tale da facilitare l’attività di personalizzazione da parte dei giocatori.
L’architettura del futuro sarà caratterizzata da una partecipazione sempre maggiore dell’utente alla sua definizione organizzativa e formale (Giancarlo De Carlo)
Carmack è tra i principali sostenitori del copyleft, un modello di gestione dei diritti d’autore che ha fortemente influenzato la cultura e l’etica hacker degli anni Ottanta e Novanta e che permette agli utenti di distribuire gratuitamente delle versioni modificate dei prodotti base in aggiunta agli stessi. Per questo, non coglie troppo di sorpresa la sua decisione di lasciare il pacchetto WAD contenente tutti i file relativi a grafica, effetti sonori e musica separato dal motore di gioco, proponendo già a monte una soluzione modulare e facilmente editabile del prodotto.
Questa scelta ha sicuramente facilitato di molto l’esperienza legata al modding, non solo perché ha fornito un riferimento chiaro e pratico per la lavorazione dei file, ma anche perché ha permesso a chiunque di partire dalla stessa base. Ciò ha portato alla creazione di tutorial condivisi con pacchetti di istruzioni che hanno reso ancor più alla portata di tutti le eventuali modifiche da apportare al gioco.
Il tempo e il paesaggio: le mod tra Neoclassico e Barocco
Un aspetto interessante è il legame antitetico tra la frenesia del gioco (in cui si deve sostanzialmente affrontare un’orda infinita di avversari demoniaci mentre si va da un punto “A” a un punto “B”) e il tempo necessario per apprezzare al meglio una forma di architettura o di spazio. Guardando al passato e volendo fare degli esempi più universali possibili, si può prendere in oggetto il passaggio tra il periodo Barocco – in cui il modo di spostarsi prevalentemente a piedi per la città consentiva di osservarla soffermandosi sui particolari, sulle quinte urbane e sui punti d’interesse – e l’avvento del Neoclassico, quando tutto si inizia a fare più veloce e frenetico, portando le architetture e le soluzioni urbane verso forme più essenziali e meno decorative.
Nel gameplay di Doom, la velocità è un fattore essenziale, combinata a buoni riflessi e a un’intuizione reattiva. Per intenderci, quando non erano disponibili risorse online come mappe e percorsi guidati, i giocatori tracciavano su dei fogli delle linee ideali per entrare e uscire dalle mappe in breve tempo e consumando il minor numero possibile di risorse. Eppure, è proprio da quella stessa generazione di giocatori che è nato il fenomeno delle mod, con tutta la cura grafica a esse legata. Forse, il fascino dell’intera operazione è tutto qui: nella scelta di sovvertire delle regole scritte da altri, prendendosi ognuno il proprio tempo. Una lezione che dal basso è risalita fino allo sviluppo ufficiale. In tal senso, Nel capitolo appena pubblicato, Doom: Eternal (Bethesda, 2020), vecchi e nuovi giocatori che affrontano una frenesia sempre crescente mentre avanzano in spazi progettati in modo puntuale, sempre più credibili e coerenti.