Brutalismo decolonizzato: le terme di Sidi Harazem a Fes e il rinnovamento della loro indipendenza

Un’architettura moderna concepita per un Marocco appena indipendente viene restaurata e riattivata da un progetto partecipato a cura di Aziza Chaouni.

Sidi Harazem è un’oasi a  12 km da Fes. Già nel XVI secolo Leone l’Africano la descriveva come un paradiso terrestre, ed è l’evoluzione abitata di questa visione ciò che Jean-François Zevaco vede nel 1959, chiamato dalle autorità di un neoindipendente Marocco a progettare un nuovo stabilimento termale.  Da secoli infatti è conosciuta la presenza di sorgenti nell’oasi — che nel XIV secolo il sultano El Hassan dedica a Sidi Harazem, teologo sufi di Fez morto nel 1163 e lì sepolto — e nell’età contemporanea il luogo si presenta all’architetto come un havre de paix, che accoglie la tomba del santo, le abitazioni in terra cruda di una  comunità di coltivatori, e tre grandi vasche dove uomini, donne e bambini si recano per i bagni termali.  Il luogo è frequentatissimo, la presenza del santo è l’origine di un moussem, una grande festa annuale, e la fonte fa affluire un grande turismo interno. All’indomani dell’indipendenza infatti, un turismo balneare di matrice europea (Club Meditérranée etc.) arriva a valorizzare le coste, concedendo una proroga possente alle retoriche dure a morire, del Marocco come porte ouverte sur l’exotisme; ma allo stesso tempo il governo e la Caisse de Dépôt et de Gestion, col sostegno della Banca Mondiale lavorano a sviluppare il turismo interno, della popolazione locale all’interno del paese, e il turismo termale ne è un motore forte.

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Il progetto del complesso di Sidi Harazem, sviluppato tra 1960 e 1975, si inserisce in quest’onda intellettuale a tutti gli effetti postcoloniale, così come la figura del suo progettista: Jean-François Zevaco, assieme ad altri architetti come Elie Azagoury appartiene a un gruppo di professionisti marocchini che si forma alle Beaux Arts di Parigi ma sviluppa  poi una pratica indipendente di ritorno nel proprio Paese d’origine. Si stacca presto dalle linee dei CIAM e porta avanti il discorso del Moderno in una chiave che incarna lo spirito di progresso che spinge il Marocco all’alba della sua indipendenza. Una storia che, in sostanza, si scrive in Marocco.
La visione progressista di Zevaco, combinata con la sua teoria linguistica di una architettura–scultura, brutalista figlia ribelle del Moderno, si stende sull’oasi articolando un nuovo paesaggio: una grande piscina circolare riparata da una canopée in calcestruzzo a vista; la combinazione del riad — giardino d’acqua con i seguia (canali) anch’essi in calcestruzzo — con il mercato, la kissaria, dedicato ai turisti, all’ombra di una copertura-pattern di elementi piramidali, attorno alla grande stecca modernista del nuovo albergo; e soprattutto la piazza con al centro la fontana pubblica che riunisce i viaggiatori attorno all’acqua della sorgente e viene concepita come una ombrière, segnata da pergole e velari brutalisti; il villaggio dell’oasi è sostituito da un complesso e potente sistema di geometrie, di spazi dal programma antico ma dalla riarticolazione moderna, segnato dall’onnipresenza del béton brut.

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L’interazione di pratiche tradizionali con forme nuove, e la sostanziale evoluzione della storia e degli usi della popolazione, hanno fatto si che negli ultimi trent’anni il complesso abbia conosciuto una stagione di declino. Un declino però peculiare, fatto di diverse storie e diversi pezzi. E’ stato principalmente il turismo termale popolare a declinare; ma anche la struttura alberghiera in qualche modo non lo aveva recepito, trattandosi di un turismo che i marocchini praticano presso le case dei residenti o dormendo direttamente presso la fonte (nella tradizione, per attendere l’intervento guaritore delle djinn). La kissaria è stata chiusa, la piscina e la distribuzione dell’acqua prese da forme di piccolo commercio privato.  

Più che un declino, un’ibernazione funzionale, complice la lentezza decisionale degli organi statali un tempo committenti e gestori della struttura (l’albergo non ha mai chiuso, restando operativo e quasi vuoto). Su questa ibernazione ha scelto di operare l’architetto marocchino Aziza Chaouni, costruendo un progetto di riattivazione dello stabilimento che agisce tanto sull’architettura quanto sui processi che la animano. Specialista nello studio del deserto abitato, forte di una lunga pratica di progettazione partecipata, Chaouni — colla consulenza della curatrice Lucy Hofbauer e su mandato della Caisse de Dépôt et de Gestion — ha elaborato un conservation management plan risultato poi vincitore dei fondi Keeping it Modern della Getty Foundation destinati alla conservazione e attivazione del patrimonio architettonico moderno. Oltre al restauro delle opere brutaliste in calcestruzzo, il progetto punta a ristabilire la dimensione pubblica di Sidi Harazem, rendendola però stavolta economicamente e socialmente sostenibile (due grandi limiti fin dall’inizio erano i bilanci in negativo fisso e il match incompleto tra nuovo progetto e tessuto esistente). Individuando quindi nel luogo un triplice patrimonio —architettonico, naturale, umano — il progetto punta al ristabilire quell’havre de paix maginficato da Zevaco puntando su tre vettori che lo possono rendere vivo: un vettore popolare, incentrato sulla riapertura al pubblico di piscina e stabilimento in generale; il vettore di un lusso intellettuale in cui far fare l’esperienza del luogo nel restaurato albergo e in una spa di nuova realizzazione; un vettore socio-educativo legato al recupero della tradizione di orticoltura dell’area. Quest’ultimo è articolato nell’istituzione di una scuola di cucina per locali in collaborazione colla chef stellata Najat Kaanache del Nur della medina di Fes.

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L’intero processo basa la sua realizzabilità sulla sua matrice partecipativa: Chaouni è riuscita a riunire gli abitanti, anche i piccoli commercianti del luogo per la ridistribuzione delle attività nella kissaria e nella piazza; la produzione di un plus intellettuale di interpretazione del luogo è invece stata affidata al lavoro di giovani artisti, con cui vocazione e appartenenza del luogo stesso sono stati messi in discussione. In concomitanza col lavoro di Andreea Muscurel già parte del progetto per Getty, il sito è stato esplorato dalle fotografie d’architettura di Zineb Andress Araki, dalla ritrattistica di M’hammed Kilito, dalle ricerche sonore di Abdellah Hassak, dalle ricerche partecipative di Léa Morin e Mohamed Fariji dai lavori di Laila Hida sull’informale dell’ombrière. Differenti le tecniche, comune la domanda sul luogo: è francese? coloniale? postcoloniale? anticoloniale?
Questi lavori saranno in mostra — assieme all’intero processo progettuale — a Rabat dal prossimo 11 luglio, e in seguito a Toronto e Marsiglia: resta evidente come questi non vogliano restare pure ricerche su uno stato di fatto. Essi vogliono contribuire a costruire e far vivere la nuova storia di Sidi Harazem attraverso la formulazione di quella che potremmo chiamare la domanda giusta, quella in grado di generare proposte e le letture alternative di uno spazio. Dando così una continuità a quello spirito con cui — con una posizione forse meno interrogativa ma ugualmente radicale e innovatrice — Zévaco aveva voluto scrivere con Sidi Harazem il primo capitolo di un moderno non-coloniale in un’oasi del Marocco.

Progetto:
complesso termale Sidi Harazem
Architetto:
Jean-François Zevaco
Luogo:
Fes, Marocco
Progetto di restauro e riattivazione:
Aziza Chaouni; Lucy Hofbauer (consulenza curatoriale); Caisse de Dépôt et de Gestion (committente)
Artisti:
Zineb Andress Araki; M’hammed Kilito; Abdellah Hassak; Léa Morin e Mohamed; Laila Hida
Mostra:
dall’11 luglio, Galerie Espace Expressions CDG, Place Moulay El Hassan, Rabat

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