Nel 2007 la storica dell’arte e curatrice Carolyn Christov-Bakargiev qualifica come “biennale syndrome” la moltiplicazione delle biennali nel mondo dell’arte, un fenomeno che a un decennio di distanza ha ampiamento investito anche l’architettura. Una visita alla Biennale di Architettura e di Paesaggio di Versailles, organizzata dalla regione Île-de-France e dalla città di Versailles, con il castello locale e il museo del Louvre, e in corso fino alla metà di luglio di quest’anno, non può che riportare alla mente questa fortunata formula e sollevare degli interrogativi sul fenomeno che descrive.
Due esposizioni formano la spina dorsale della più nuova delle biennali francesi, di cui è commissario generale François de Mazières, sindaco di Versailles: Djamel Klouche cura Augures, laboratoire des nouvelles pratiques architecturales, all’interno della monumentale Petite Écurie (le ex-scuderie reali), e Alexandre Chemetoff allestisce Le goût du paysage, nel Pavillon des Suisses dell’immenso Potager du Roi (l’antico orto del re).
La prima è una rassegna collettiva delle installazioni, spesso riuscite, di una ventina di autori – tra di loro anche Fosbury Architecture, Matteo Ghidoni con Jean-Benoît Vétillard, GRAU, Kuehn Malvezzi con Plan Común, NP2F, Raumplan con Delfino Sisto Legnani e Andrea Belosi. Sarà per la presenza di tanti “soliti noti” del circuito biennale, sarà per l’allestimento e la grafica certo di qualità, ma che si adattano senza particolari guizzi ai canoni estetici comuni alla maggior parte delle giovani biennali d’architettura, l’effetto complessivo è tutto sommato quello di un rassicurante déjà-vu.
Dal canto suo, la mostra di Chemetoff affronta il tema attualissimo del rapporto tra la città e la campagna che la “nutre”, ma non brilla né per il valore scientifico dei contenuti, né per la poesia della loro messa in scena. L’accostamento un po’ meccanico di ritratti di contadini inquadrati nei campi, viste aeree di paesaggi agricoli dell’Île-de-France, qualche mappa e qualche manciata di prodotti “a chilometro zero” costruisce un racconto che rischia di scivolare nel pittoresco, nell’aneddoto sulla vita rurale sana e laboriosa.
Altre quattro esposizioni – tra cui la mostra fotografica Échappées belles, a cura di Nicolas Gilsoul, e Horizon 2030, dedicata al progetto infrastrutturale del Grand Paris Express – il consueto corollario di conferenze e tavole rotonde, e qualche evento collaterale – ad esempio l’inaugurazione di tre nuovi edifici in città – completano l’offerta culturale di una manifestazione che ha certamente il pregio di mettere a sistema le location più spettacolari di tutta Versailles.
C’era davvero bisogno di tutto questo? La domanda non è retorica, e la risposta non è scontata. Difficilmente questa biennale sarà ricordata come un luogo di effettiva elaborazione teorica sull’architettura, a differenza di alcune sue omologhe più sostanziose. Piuttosto, il grande coinvolgimento di cariche istituzionali di ogni grado sembra suggerire una funzione principalmente politica. La biennale di Versailles vuole essere l’occasione per rilanciare in grande stile il dibatto sul Grand Paris, sul futuro della regione parigina come cuore della Francia e dell’Europa. Non a caso, invitato d’eccezione all’inaugurazione era proprio l’ex-presidente Nicolas Sarkozy, che nel 2007 chiamò dieci team d’eccellenza a riflettere su questo tema, nell’ambito di un concorso che resta ad oggi un riferimento imprescindibile per la qualità dei suoi risultati.