Pubblicato in origine su Domus 1028, ottobre 2018
Andrea Caputo: Mi sento a casa, qui. Intendo dire a casa tua, circondato da elementi che appartengono più a un ambiente domestico che a un normale ufficio. Qual è la tua idea di spazio di lavoro?
Alexander Brodsky: Qui non ci sono protocolli, i collaboratori sono liberi di andare e venire come vogliono, per cui non esistono abitudini o programmi quotidiani. Ovviamente, diamo per scontato che i progetti debbano essere terminati in tempo – è questo il nostro scopo ultimo – ma desideriamo conservare un’organizzazione informale dello studio. Forse perché il nostro spazio è diventato una combinazione di elementi transterritoriali, dalle scrivanie con i computer al caminetto, al bancone del bar, alla zona con le stampanti, al soggiorno, alla cucina e così via. Lavoriamo in un ex magazzino che abbiamo restaurato interamente con le nostre mani, rendendolo abbastanza adattabile da poterlo trasformare in un laboratorio di modellistica, in una galleria d’arte o in uno spazio per le feste. È lo stesso atteggiamento che abbiamo adottato anni fa, quando il mio studio si trovava nel Museo d’Architettura di Mosca. Allora, il direttore ci diede una sala e ci restammo per 12 anni, come una specie di reparto sperimentale o come dei parassiti. I visitatori restavano incuriositi dalla nostra strana presenza ed è così in realtà che mi sono fatto molte conoscenze internazionali. L’unica condizione che il direttore c’imponeva era di essere disponibili ad accogliere il pubblico del museo in qualunque momento. Eravamo parte della vita del museo.