di Giulia Ricci in collaborazione con Walter Mariotti
Mario Botta deve molto all’architettura della Milano moderna. Questo è evidente anche nei due progetti firmati assieme a Emilio Pizzi per l’ampliamento del Teatro alla Scala, oggi tornata alla ribalta con la recente inaugurazione della torre di via Verdi. A partire da una pratica che da sempre mette in primo piano storia e territorio come risultato di una progressiva sedimentazione di memorie, la nuova torre non poteva che essere omaggio alla Milano del Novecento. In particolare, a quella che l’architetto ticinese definisce come la “gravità” propria dell’architettura di quel tempo e di quella sensibilità che hanno prodotto edifici come la Torre Velasca, di cui via Verdi richiama il volume a sbalzo.
“L’innalzamento delle torri della Scala corrisponde, per me, all’ultima immagine novecentesca di Milano. Ecco, io sono un architetto del Novecento”, dice Botta. L’immagine a cui fa riferimento è quella “creata da Piero Portaluppi, Ignazio Gardella ed Ernesto Nathan Rogers, per esempio”. Si tratta di un’identità talmente forte che ha reso Milano più significativa rispetto a molti altri centri urbani europei in cui l’esperienza della modernità è stata più volatile e non ha lasciato un’impronta comparabile sulla città.
Luigi Mattioni, Torre Breda, Piazza della Repubblica 32
La foto è stata esposta alla Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano nell’ambito del progetto “100 anni di architettura 1923-2023”, curato da Leonardo Chironi e Stefano Passamonti.
Luigi Mattioni, Palazzo Omsa, 1956, Piazza Cavour
La foto è stata esposta alla Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano nell’ambito del progetto “100 anni di architettura 1923-2023”, curato da Leonardo Chironi e Stefano Passamonti.
Luigi Mattioni, Torre Breda, Piazza della Repubblica 32
La foto è stata esposta alla Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano nell’ambito del progetto “100 anni di architettura 1923-2023”, curato da Leonardo Chironi e Stefano Passamonti.
Luigi Mattioni, Palazzo Omsa, 1956, Piazza Cavour
La foto è stata esposta alla Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano nell’ambito del progetto “100 anni di architettura 1923-2023”, curato da Leonardo Chironi e Stefano Passamonti.
“Per esempio, se si va a Vienna – dice l’architetto –, che pure ha avuto periodi d’oro e personaggi come Adolf Loos, si nota che la forza dell’impianto novecentesco non è comparabile”. Questa forza si è sviluppata attraverso un lavoro culturale più ampio, che ha riguardato diversi campi del progetto e delle arti, ma non solo. Prima fra tutte è stata la pittura: “Senza Mario Sironi non ci sarebbe stato probabilmente il valore diffuso che ha permeato la Milano del Novecento. È stato un momento di grazia per gli artisti, magico per la cultura milanese”. È la stessa immagine a cui guarda (consapevolmente o meno) il pubblico internazionale che frequenta le week milanesi. Nonché la stessa che si studia anche all’Archivio del Moderno di Mendrisio – che Botta ha contribuito a fondare nel 1996, parallelamente dell’Accademia – e, non a caso, in cui si trovano fondi di quei progettisti che hanno dato forma all’identità milanese, come Ignazio Gardella, Giulio Minoletti e Vittoriano Viganò.
Quando gli si chiede di raccontare il suo punto di vista su ciò che sta accadendo oggi nel capoluogo lombardo, ovvero l’espansione aggressiva oltre ai limiti urbani consolidati, sottolineati dalle infrastrutture stradali e ferroviarie, Botta ricorda che la cultura che ha prodotto la Milano del Novecento comprendeva direttamente la committenza come parte integrante del progetto della modernità. Invece, oggi, i committenti non sono più “i signori Pirelli”, ma fondi d’investimento senza volto. “Milano non può resistere alla seduzione – o all’inganno – dei fondi d’investimento, che sono i nuovi datori di lavoro e i nuovi padroni della città”. Questo cambiamento, continua Botta, “è antropologico e strutturale. Il risultato è che gli architetti non avranno più una paternità o maternità sui loro progetti”.
Mario Botta è fra i pochi progettisti ad appartenere alla ristretta cerchia delle ‘archistar’ a dichiarare tanto esplicitamente una posizione così precisa e critica nei confronti del sistema con cui lui stesso lavora. Se, però, scegliamo di interpretare la costruzione come fatto culturale, chi la progetta e la mette in atto dovrebbe anche svolgere un ruolo nei confronti della società allargata. È curioso che, in anni in cui le parole d’ordine sono ‘sostenibilità’ e ‘partecipazione’, la negoziazione e il dibattito sulla trasformazione delle città siano pressoché assenti. Così facendo si esclude la possibilità di realizzare una città a misura di chi la abita e, invece, si sceglie di affidare un compito che dovrebbe essere corale a operatori globali anonimi o ai grandi eventi.
L’innalzamento delle torri della Scala corrisponde, per me, all’ultima immagine novecentesca di Milano. Ecco, io sono un architetto del Novecento.
L’architettura può avere un ruolo democratizzante, parafrasando la risposta che Jean Nouvel ha dato quando è stato criticato per aver lavorato in Paesi non democratici. Quindi, chiediamo a Botta: la grande architettura può essere un elemento di resistenza a una certa deriva del capitalismo finanziario e del real estate? “Credo che oggi gli architetti siano anche chiamati a rispondere di quello che fanno. Non possono barattare la propria identità: le commesse odierne si fondano solo sul bilancio economico, ma non è possibile ridurre tutto al costo. L’anima di un edificio non si può comprare, o c’è o non c’è”. Il rischio, conclude il maestro ticinese, è che quegli interventi che vengono realizzati seguendo questo processo non diventino parte della città, ma parti contro la città: “Questa non è una critica, ma una constatazione. Gli architetti devono rendersi conto che sono cambiate le condizioni”.
Immagine di apertura: Mario Botta, 2023. Foto Flavia Leuenberger Ceppi