Questa intervista è stato pubblicata in origine su Domus 1080, giugno 2023. Nel testo, la guest editor 2023 Toshiko Mori parla con Andrés Jaque del suo progetto di scuola nella capitale spagnola.
La Reggio School di Madrid è ecologicamente notevole, un’opera di silvicoltura urbana.
Nella prima riunione con il gruppo d’insegnanti e genitori che ha ideato la scuola uno di loro ha detto: “L’edificio è il terzo docente e nulla va nascosto. Le tubature e gli organi interni devono essere parte della pedagogia”. Abbiamo compreso che gli studenti avrebbero imparato dall’edificio. Ecco perché tutto doveva essere a vista. Alla Reggio School la nudità dell’architettura risponde all’esigenza pedagogica d’imparare dall’esperienza di vivere quotidianamente in un’architettura che mette in moto la curiosità. Per sottolineare questa caratteristica, il progetto doveva rendere manifesta la complessità dell’edificio e il modo in cui nasce dall’unione di sistemi radicalmente eterogenei. Funziona come un ecosistema che permette agli utenti il collegamento con l’esperienza quotidiana di vedute e comunità più ampie, e con le realtà minori dove la vita si svolge.
È questo il motivo per cui nel progetto sono diventati molto importanti due aspetti. Il primo è la nudità: sistemi meccanici e strutture sono visibili in modo addirittura violento e inedito. In secondo luogo, la composizione dell’edificio è un montaggio disomogeneo di tradizioni e linguaggi architettonici differenti. Per esempio, c’è una parte dell’edificio che fa riferimento alla tradizione delle infrastrutture: quella con le arcate di calcestruzzo. Mette in gioco la tradizione dei ponti e di altre infrastrutture che funzionano su scala sociale. È la parte dell’edificio dove studenti, insegnanti, genitori e tutor gestiscono insieme la vita comunitaria. Qui, è collocata la sala comune, un grande spazio polifunzionale che funge da palestra, teatro e aula riunioni per gli organi di governo della scuola. Tuttavia, nel tempo in cui viviamo la società civile comprende anche presenze sovraumane. In questo, mi ricorda le ville palladiane e il modo in cui il loro piano nobile apre la mente, gli occhi e i sensi a un paesaggio cui esse sono intrinsecamente collegate. Considero le aperture ad arco della scuola come occhi architettonici collegati a quelli umani, che permettono alla mente di estendersi al paesaggio. Strutturalmente, funzionano alla scala dei ponti, ovvero alla scala in cui una società è collegata a ecosistemi sovraumani.
Leggo anche che avete raccolto materiali in disuso. Una specie di bricolage di eccedenze industriali.
Sì, per un po’ abbiamo fatto così. Non m’interessano i componenti architettonici commerciali di uso corrente. Nella maggior parte dei nostri progetti, realizziamo le costruzioni con i residui della storia. In qualche misura, questa inclinazione viene dalla bizzarra predilezione a non adattarsi, a non voler sottostare alle tendenze ordinarie. Cerchiamo, invece, di scoprire modi sovversivi di riappropriarci di ciò che è disponibile, di modo che le tecnologie esistenti si disallineino rispetto alle intenzioni per cui sono state progettate. Lavoriamo per dare una seconda vita ai materiali e alle tecnologie che, nel filone principale della storia, sono andati perduti.
In Spagna è una cosa fattibile perché la crisi finanziaria del 2008 ha prodotto una frattura radicale nel settore complessivo dei materiali e, di conseguenza, grandi quantità di prodotti e di materiali sono rimaste inutilizzate. In Europa meridionale, le politiche di austerità successive al 2008 e l’incremento del rischio hanno prodotto un’improvvisa paralisi dell’edilizia. Se si considera il flusso dei materiali, quando la situazione rallenta ci sono sedimenti che vivono una seconda vita. Ciò vuol dire che molte componenti edilizie sono messe da parte, 15 anni dopo stanno ancora ferme in magazzino. Collegate a queste rimanenze ci sono anche le persone: intere famiglie che gestivano un’impresa o un’attività artigianale il cui lavoro non è più richiesto. Per la Reggio School, seguendo l’esperienza maturata in progetti precedenti come Rómola ed Escaravox, avevamo deciso di lavorare con componenti sorprendenti che ci permettevano di unire progetto d’uso e di rigenerazione sociale. Abbiamo trovato e usato una grande quantità di pannelli di plastica a bolla prodotti all’inizio degli anni Duemila per le coperture dei camper. Abbiamo anche trovato un gruppo di muratori specializzati nella posa dei mattoni di vetro, che lavorano in modo impeccabile, ma con il tempo erano stati messi da parte come rappresentanti di una tecnologia percepita come obsoleta. Sono persone straordinarie, che sono state felicissime di lavorare con noi e hanno fabbricato con entusiasmo particolari componenti angolari tagliando e mettendo insieme i mattoni uno a uno. Per i lavandini abbiamo trovato in una cittadina della Murcia una famiglia che realizzava lavatoi per chi voleva lavare il bucato a mano. Nessuno chiedeva più loro di produrli, ed erano così belli. Allora ci siamo rivolti a loro. È stato appassionante: come creare una comunità, una comunità materiale di cose e persone tagliate fuori dal corso principale della storia.
Mi fa piacere che non estetizziate i componenti: non li avete resi gradevoli perché fossero accettabili, perché si adattassero alla normalità. Avete lasciato dei bordi grezzi. L’edificio tace ma, se lo si guarda abbastanza da vicino e si mettono insieme i pezzi, racconta delle storie. Oppure è una specie di orfanotrofio di materiali – orfani industriali – che hanno trovato casa.
Sì, è proprio così. Credo che l’idea sia questa. Hanno trovato una casa dove altre persone ne godranno. Se si agisce secondo un paradigma ecologico, nulla è spreco. Ogni entità ha la potenzialità di fornire una risposta imprevedibile a una sfida evolutiva. Le bolle di plastica sono pensate per fare da lucernari orizzontali, no? Noi le abbiamo sistemate in verticale e ai ragazzi è piaciuto. Era anche impressionante perché, quando ho visitato per la prima volta la scuola, dove c’erano già i ragazzi, si buttavano sulle bolle. Io ero preoccupato e sono corso in studio per accertarmi che resistessero al peso di un ragazzo. Allo stesso tempo, però, era una bella cosa. Si vedevano ragazzini che dormivano dentro le bolle. In certo qual modo, è stata la prima immagine dell’edificio che ho avuto: cinque ragazzi che dormivano in queste bolle. Se ne sono appropriati spontaneamente e ora chiamano l’edificio “il sommergibile”.
M’interessa anche l’uso del sughero come isolante. Mi affascina perché si ricollega al tema della foresta. Sembra adottare la concezione dell’edificio come organismo. L’edificio deve conservarsi da sé. In un certo senso, deve vivere insieme con l’ecologia che lo circonda.
Mi piace molto la soluzione del sughero per la facciata di questo edificio, ci abbiamo lavorato per due anni. Questo strato di sughero è molto spesso e quindi, anche se è molto poroso e permeabile, l’acqua non può entrare. Mi piacciono parecchio questi gradienti di umidità del materiale. Si vede anche che il sughero, invecchiando, si riempie di vita: muschio, licheni, batteri e insetti vi si insediano perché è poroso e perché la superficie non è liscia. È accogliente per la vita. Questo è un edificio che fa crescere attivamente la vita, una vita sovraumana: come nel progetto della Rambla Climate-House, il tetto della Reggio School raccoglie l’acqua piovana, e grazie a un sistema di sensori, la fa scendere nell’edificio. Abbiamo lavorato con una coppia di ecologisti straordinari (Jorge Basarrate e Álvaro Mingo) per progettare una serie di giardinetti distribuiti in tutto l’edificio per far crescere forme di vita che hanno un ruolo ecologico cruciale. Basta pensare a uno di questi giardini non accessibili agli umani e al ruolo importante che le api cui danno nutrimento hanno in un territorio dove fertilizzanti e pesticidi hanno decimato gli insetti impollinatori. Altrettanto vale per i pipistrelli, le farfalle, perfino per gli uccelli migratori. L’edificio diventa un facilitatore e un sostegno alla lotta di queste forme di vita da cui in fin dei conti gli umani dipendono. Immagino la convivenza con queste presenze sovraumane come qualcosa che ha anche un senso educativo. Questo crogiolo di presenze eterogenee che dipendono dall’attenzione di tutti è ciò che una scuola può essere oggi.
Questo materiale l’avete inventato?
Abbiamo elaborato un modo differente di usarlo, che non ha nulla di complicato. Consiste in più strati di sughero triturato applicato a spruzzo misto a bioresine naturali. La qualità e la grande proporzione di sughero naturale sono molto importanti. Poi si aggiunge un po’ d’acqua per poterlo applicare a spruzzo. Come dipingere con uno spruzzatore. È un processo bellissimo. È il risultato di due anni di collaborazione con i laboratori per trovare la formulazione giusta.
Credo che la Reggio School meriti davvero un’attenzione approfondita perché adotta certi motivi e certi elementi architettonici noti, ma li combina insieme in modo non tradizionale. Vuol dire comunque rompere una conoscenza stereotipata dei materiali e dell’architettura. Naturalmente è così che i ragazzi imparano.
È un po’ come una casa, una grande casa collettiva. A me piace così. Ma è anche abbastanza complessa da potercisi perdere. In modo fortemente voluto, la scuola non si basa su un grande spazio di gioco controllato e recintato. Il cortile è un grande parco pubblico che si estende deciso verso il centro cittadino fin quasi all’aeroporto. Sono campi destinati ai ragazzi per fare ginnastica, giocare ed esplorare. La scuola anima la sfera pubblica e, invece di separare e proteggere all’eccesso i ragazzi, li educa esponendoli alle società e agli ecosistemi di cui fanno parte e da cui dipendono. Non ci sono praticamente corridoi. La biblioteca è un punto di transizione per entrare nelle aule e nella palestra. Si può trascorrere l’intervallo nella serra, in biblioteca o nella sala comune, oppure nella loggia. Mi piace vedere quanti ragazzi decidono di passare il tempo leggendo in biblioteca. È stato un gran lavoro, pensando che non ci sono divisioni tra le aule e, per esempio, le aree del tempo libero. Il carattere ecosistemico dell’edificio lo predispone alla casualità e a favorire l’inatteso. L’architettura è esperimento, no? Deve necessariamente esserlo. Come architetti lavoriamo partendo dal concetto ottimista che il risultato non ha bisogno di essere predefinito e pensiamo sia piuttosto un processo che produce condizioni che crediamo porteranno a qualcosa d’interessante. In questo momento, l’architettura suscita grandissimo interesse. In un’epoca che ci pone di fronte a tante trasformazioni cruciali, nei prossimi anni vedremo architetture che saranno una sorpresa totale e che, probabilmente, faranno sì che l’ambiente non appaia e non si comporti come in passato. È una cosa che mi appassiona profondamente.