La Cupola di Antonioni e Vitti è in pericolo

Da qualche anno la residenza progettata da Dante Bini è sovraesposta mediaticamente, ma il suo degrado non si è fermato. Quali sono le prospettive per la sua tutela? 

Negli ultimi anni, molto interesse è circolato attorno alla residenza che Dante Bini realizzò per Michelangelo Antonioni e Monica Vitti a Costa Paradiso, in Sardegna, fra il 1969 e il 1971. La Cupola è stata portata all’attenzione del pubblico nel 2014, con la presentazione a Monditalia, presso la Biennale Architettura di Venezia curata da Rem Koolhaas. Con quell’occasione si è generata una mobilitazione per denunciare lo stato di abbandono e declino della struttura. Gli ultimi tentativi di salvarla sono stati condotti nel 2020, dal FAI con l’iniziativa “I luoghi del Cuore” e dalla piattaforma online De Rebus Sardois con una petizione. Oggi l’edificio continua ad essere in stato di degrado, oggetto di visite non autorizzate e di vandalismi. Con la scomparsa dell’attrice, avvenuta lo scorso 2 febbraio, la storia della villa è riemersa assieme alle prospettive incerte sulla sua tutela.

“Quest’edificio ha tutto: una committenza significativa per la storia locale e del Paese, un progettista notevole e una tecnica costruttiva innovativa associata agli elementi non seriali degli interni”, dichiara il soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Sassari e Nuoro Bruno Billeci a Domus

Nel settembre 2015, la soprintendenza aveva già approvato una dichiarazione d’interesse culturale, storico e artistico per la Cupola. L’architetta Martina Murzi, funzionaria che al tempo era stata coinvolta nella procedura, rileva che “sono rari i vincoli su un’architettura moderna: il Codice dei beni culturali e del paesaggio stabilisce che un edificio debba essere stato completato da almeno 70 anni, o che il suo autore non sia più in vita. La forma di tutela che abbiamo posto, invece, si applica a beni reputati d’interesse storico eccezionale”. Al vincolo diretto si aggiunge quello indiretto, che protegge la Cupola anche nella relazione con il contesto ambientale e urbanistico. Queste misure impediscono alla proprietà anzitutto di demolire il bene, ma anche di modificarlo, sia all’interno che all’esterno, oltre a imporle degli obblighi conservativi.

La Cupola. Courtesy © Archivio Costa Paradiso, Pepita Isetta

Nel 2016 i proprietari hanno fatto ricorso al TAR di Cagliari, ma la sentenza del novembre 2021 lo ha respinto. “Secondo il Codice Urbani, il passo successivo è l’imposizione di un progetto di recupero”, afferma Billeci, “ma è una strada difficile da percorrere: in tre anni da soprintendente ho seguito un solo caso di questo tipo”. Considerando che le risorse umane ed economiche degli organi periferici del ministero della Cultura sono limitate, si preferisce “seguire l’emergenza attraverso le dichiarazioni per mantenere un livello medio di tutela”. Le strade più realistiche, per Billeci, rimangono due: sensibilizzare la proprietà oppure, in seconda battuta, tentare l’acquisto da parte delle amministrazioni locali, a partire dal comune di Trinità d’Agultu e Vignola.

Negli anni si sono avvicendate “diverse proposte di acquisto da parte anche di collezionisti d’arte di Hong Kong, Zurigo e New York”, riferisce il professore dell’Accademia di Mendrisio Carlo Dusi, esperto che ha supportato la soprintendenza, “ma nessuna ha portato a un esito positivo”. Recentemente si è ventilato un interesse del FAI a comprare la villa, ma Monica Scanu, la presidente regionale della fondazione, smentisce: “In genere quello che facciamo è sviluppare progetti di valorizzazione per i beni che ci vengono affidati in donazione o in cessione. In questo caso possiamo solo auspicare una soluzione che ci coinvolga”.

Antonioni voleva vivere la ‘tridimensionalità dello spazio’ e gli elementi della natura mediterranea che circondavano il sito.

“Il recupero di quella casa mi sta a cuore, la situazione è molto grave”, racconta Dante Bini, oggi novantenne, a Domus. L’innovativo sistema costruttivo con cui fu realizzata la residenza, chiamato Binishell, risale al 1964 ed è concepito per erigere edifici a cupola in tempi brevi e costi ridotti. Le caratteristiche ne determinarono il successo commerciale e, dice Bini, “alla fine degli anni Settanta si registravano già oltre 1.500 Binishell in Italia e all’estero”. Queste costruzioni furono tutte sollevate sfruttando una pneumoforma gonfiata d’aria fino al punto di tensione massima determinata dal precalcolo dell’armatura di acciaio. Così l’architetto costruì diverse strutture pubbliche per il governo del New South Wales, in Australia, e lo Sports hall di Malvern, nel Regno Unito, oggi tutelate dai rispettivi Paesi.

Fu proprio Vitti, a detta di Bini, a interessarsi al suo brevetto: “La incontrai per la prima volta a Cortina, fece delle considerazioni sugli aspetti ecologici di Binishell e mi disse che avrebbe potuto incuriosire anche Antonioni”. Bini conobbe poi il regista a Roma e intraprese diversi viaggi con la coppia a Costa Paradiso, dove lavorò su un modello in scala per definire il progetto. “Antonioni voleva vivere la ‘tridimensionalità dello spazio’ e gli elementi della natura mediterranea che circondavano il sito. Quando portai la prima proposta su carta andò su tutte le furie! – aggiunge l’architetto –. Ci volle del tempo per immedesimarmi nelle sue richieste, ma è a lui che devo la mia maturità professionale”.

  

La struttura ha un diametro di 20 m e il guscio ha uno spessore ridotto, che va dai 12 cm alla base fino ai 6 cm alla sommità. L’interno, scultoreo e su misura, comprende una scala scenografica di granito locale e un oculo centrale che lascia entrare la pioggia. Quest’ultimo elemento aveva una forma organica ed è l’unico che risulta essere stato alterato dal 1971. Oggi la passerella che dalla macchia mediterranea conduce all’ingresso al primo piano è pericolante ed è sparita la sedia dove sedeva Andrei Tarkovsky quando fu immortalato in una polaroid durante una vacanza nel 1979. Qui, ormai, è l’abbandono a modificare gli spazi, non più l’intenzione.