Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Domus 1059, luglio e agosto 2021.
Il restauro in architettura: conservazione e creazione
La prassi della conservazione architettonica dispone di importanti modelli divergenti. Quel che conta, spiega Pierre-Antoine Gatier, è tramandare l’autenticità dell'edificio.
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- Pierre-Antoine Gatier
- 13 luglio 2021
Nelle società occidentali, la scelta di conservare le opere del passato per tramandarle ai posteri è molto radicata: è frutto della consapevolezza dell’importanza di lasciare testimonianze eccezionali della storia dell’architettura o di altre arti. Questa lunga storia annovera alcune tappe essenziali. Tra i primi ad avere questa intuizione è Raffaello. Artista, pittore e architetto, si impegna a sensibilizzare Papa Giulio II sulla necessità di conservare marmi e antichità. Dal punto di vista simbolico, le opere antiche, soprattutto le sculture riscoperte nel XVI secolo, sono state il fondamento della pratica del restauro. Opere spesso incomplete al momento del loro rinvenimento nella Roma rinascimentale diventano oggetto d'intervento per ristabilirne l’integrità. Ciò che può sembrare un fenomeno specifico della storia dell’arte si rivela emblematico di quelli che saranno poi, a partire dall’Ottocento, gli appassionati dibattiti sul patrimonio culturale. Ci si chiede se le integrazioni delle sculture, come quelle che realizzerà il Bernini, rientrino nella sfera della creatività oppure se si debba fare ricorso a operatori di talento che rispettino l’opera antica.
A parte la conservazione delle sculture, la sensibilità per i beni culturali si è ormai impadronita dei monumenti e dell’architettura. La consapevolezza che la storia si scrive nel lungo periodo ha indotto ciascuno di noi ad appassionarsi all’architettura. Oggi, quando si parla di patrimonio culturale si fa riferimento all’antichità, all’epoca medioevale e al classicismo, ma anche al XIX e al XX secolo. La capacità di appropriarsi dell’architettura preesistente richiede una certa padronanza dei meccanismi propri della storia e della memoria. Il processo della conservazione va fondato su un sapere storico e culturale. La pratica del restauro si basa su filosofie e dottrine consolidate. Senza alcun dubbio, la Carta di Venezia del 1964 è diventata per tutti il fondamento filosofico che cerca di definire regole comuni, universali, che vadano oltre l’intuizione personale. Il rispetto della fisicità e dell’autenticità rimane la scommessa principale della prassi del restauro, che impegna l’architetto a un rigido rispetto dell’opera preesistente e di ciò che dovrebbe essere, nel suo intervento, un gesto minimalista. Studio e cantiere sono un’unità inscindibile. La padronanza del saper fare e la trasmissione delle competenze rimangono una preoccupazione che deve animare ciascun progetto. Ma soprattutto, come Raffaello e gli scultori che hanno dato vita al suo sogno, il gesto dell’intervento va definito con rigore.
Qualunque progetto deve rispettare l’autenticità storica e affermarne la leggibilità. Perciò, quando è un’addizione resa necessaria da una nuova funzione d’uso, quest’ultima va dichiarata, rivendicandone il carattere contemporaneo. Tuttavia, anche se le regole deontologiche forniscono delle linee guida, non esiste alcun inquadramento che garantisca il successo di un progetto, sia esso di conservazione o di nuova creazione. Solo la convinzione che i due atteggiamenti – creare e conservare – abbiano lo stesso valore e si arricchiscano a vicenda apre la via a progetti che perpetuino il patrimonio culturale e dia loro vita in vista di progetti futuri. La prassi del restauro dispone ormai di importanti modelli che devono nutrire le nostre riflessioni, ciascuno dei quali corrisponde a un contesto culturale e politico. Ma in tutti è presente il nodo fondamentale del conservare e tramandare. Giuseppe Valadier, per esempio, nella Roma dei primi dell’Ottocento consolida il Colosseo con ruvidi contrafforti di mattoni, conservando il rudere e ricomponendone l’architettura. Ancora, John Ruskin e William Morris, in un impegno politico che rifiuta le devastazioni del secolo dell’industria, preferiscono l’autenticità agli interventi di restauro che sconvolgerebbero la memoria.
La prassi del restauro dispone ormai di importanti modelli che devono nutrire le nostre riflessioni, ciascuno dei quali corrisponde a un contesto culturale e politico. Ma in tutti è presente il nodo fondamentale del conservare e tramandare.
C’è poi il caso di Viollet-le-Duc con la cattedrale parigina di Notre-Dame, monumento nazionale ideale, punto di riferimento della città e del Paese. Dopo la Prima guerra mondiale, i restauri rimossero i monumenti distrutti e s'impadronirono di nuove componenti materiali come il calcestruzzo armato, per rafforzare il carattere permanente della struttura. Esemplare, poi, il caso della ristrutturazione della gare d’Orsay di Parigi da parte di Gae Aulenti, salvataggio di un monumento ottocentesco dimenticato e destinato alla demolizione. Ognuno di questi casi rappresenta un esempio valido anche se non univoco, l'architetto deve trovare la propria via tra queste prassi divergenti. L’unica risposta legittima è una conservazione rigorosa, che rispetti la storia e si sforzi di limitare l’impatto del restauro. L’atteggiamento corretto è considerare tutte le architetture, anche le più contemporanee, come altrettante opere da conservare; nel caso di opere più antiche, si devono accettare le modifiche e le trasformazioni create dal tempo. Tutte le architetture vanno conservate. La Maison La Roche-Jeanneret, dal 1969 Fondation Le Corbusier, opera purista, ha ritrovato, grazie al restauro e agli esiti di un sapiente lavoro di ricerca d’archivio e di analisi di laboratorio, il tono ocra dei rivestimenti originari, colorazione della modernità che la documentazione fotografica in bianco e nero aveva fatto dimenticare.
Alla Fondation Vasarely a Aix-en-Provence, un progetto conservativo sulle facciate continue d’alluminio anodizzato – grazie alla sostituzione dei giunti a tenuta e dei vetri Emalit, sempre prodotti da Saint- Gobain – ha permesso la puntuale conservazione di questi elementi emblematici divenuti tanto fragili. Oltre a questi edifici-icona del XX secolo, ci sono anche quelli più antichi, sui quali si è intervenuti in epoca contemporanea, un patrimonio troppo spesso trascurato. Nella cattedrale Notre- Dame-et-Saint-Vaast d'Arras, è stata conservata un’architettura settecentesca affermandone il carattere di opera ricostruita dal 1925 in poi, dopo i disastri della Prima guerra mondiale. Tutte queste architetture erano destinate a durare nel tempo. Forse il più grande paradosso del restauro consiste nel confrontarsi con le opere effimere, più fragili. Si pensi alla cappella di Notre-Dame de-Tout-le-Monde-et-des-Sans-Abris a Noisy-le-Grand, testimonianza dei rifugi realizzati dall’Abbé Pierre e da padre Joseph Wresinski: è stata realizzata in autocostruzione, rivestita da lastre di fibrocemento e poi da scandole di bitume e fibra di vetro, che si sono dovute stabilizzare affinché la cappella diventasse memoria e la durata desse fisicità alla speranza. Ogni progetto è un’avventura, una storia che deve svelare il processo della conservazione.
Pierre-Antoine Gatier, architetto, è nato nel 1959 a Boulogne- Billancourt, Francia. Si è laureato in museologia all'École du Louvre nel 1983 e all'École de Chaillot nel 1987. Nel 1991 ha fondato il proprio studio a Parigi partecipando allo sviluppo di progetti di restauro e valorizzazione di grandi monumenti come il Domaine de Chantilly, Villa Medici, sede dell'Académie de France a Roma, la Bourse de Commerce, la Torre Eiffel e l'Opéra-Comique a Parigi.
Immagine di apertura: la facciata della Fondation Vasarely ad Aix-en-Provence, 1973- 1976. Centro culturale ed espositivo concepito, finanziato e realizzato dall’artista Victor Vasarely e vincolato dal 2013, l'edificio è caratterizzato da facciate continue d'alluminio anodizzato oggetto di un restauro conservativo operato da Agence Pierre-Antoine Gatier con Jacques Repiquet, 2013-2019.