Settimana scorsa lo studio dell’architetto Mario Cucinella ha presentato la sua proposta per il completamento della facciata di San Petronio, l’iconica basilica bolognese che domina la prospettiva della piazza Maggiore della città. Nonostante lo scambio vivaci di commenti riguardo alle immagini, l’idea dello studio è tutt’altro che progettuale. L’inserimento infatti di alberi e arbusti sulla parte superiore del fronte principale della chiesa è una provocazione, messa in scena per risvegliare la popolazione bolognese (e non solo).
Mario Cucinella e la provocazione del Bosco San Petronio: “la nuova amicizia con l’ambiente”
Una conversazione con l’architetto italiano, dai lavori con il Vaticano alla sua visione umanistica per fronteggiare l’emergenza ambientale. Partendo ovviamente dalla sua ultima ironica proposta per l’incompiuta bolognese.
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- Romina Totaro
- 31 dicembre 2020
- Bologna, Italia
- Mario Cucinella
Le immagini della sua proposta per la facciata di San Petronio hanno creato un forte dibattito, tra pareri positivi e contrari.
Tutto era nato dalla lunga storia di Bologna negli ultimi anni di opere non finite o non realizzate, parlando ad esempio della proposta per la nuova stazione di Ricardo Bofill o l’auditorium di Renzo Piano. Abbiamo di fronte a noi un programma decennale molto importante, anche sul fronte ambientale grazie all’Accordo di Parigi COP 21. Non vedo ancora il fermento di questi piani nella città di Bologna. Quindi vedevo proprio nell’incompiuto un tema da ridiscutere, e forse il peccato originario di quest’atteggiamento viene appunto da questo monumento inconcluso. Certo, per San Petronio si sono susseguiti nei secoli dei concorsi e progetti, come quello di Palladio, ma forse oggi ci dovessimo confrontare con l’antico – questo il dramma italiano, il rapporto tra antico e contemporaneità – non lo fai proprio come l’avrebbe fatto Palladio. Forse il messaggio da lanciare nella contemporaneità può essere quello del legame con la natura e della nuova amicizia che dobbiamo ritrovare con l’ambiente. Chiaramente la nostra proposta è solo una provocazione per svegliare la città un po’ dal sogno bolognese.
A cosa sta lavorando invece per la Commissione Vaticana per il Covid-19 voluta da Papa Francesco?
Per il Vaticano stiamo lavorando sia nella commissione post-Covid sia in quella per l’ecologia: il tema è quello di trasformare le parole del Laudato si’ – la seconda lettera enciclica di Papa Francesco, datata 2015 – in un’azione concreta. Quella facciata era stata fatta per provocare e portare attenzione ad un argomento cocente. Il 1° gennaio saranno passati cinque dall’accordo di Parigi, in cui per la prima volta dopo 25 anni di incontri sul cambiamento del clima delle Nazioni Unite, e i governatori avevano preso un impegno politico, neanche troppo tecnico. Avevamo questi cinque anni a disposizione per preparaci, ma quali sono le azioni che sta prendendo il governo? La mia intenzione è stata quella di sollecitare il bisogno di progetti e di progettualità.
Tra pandemia e crisi climatica siamo chiamati ad affrontare un’elenco numeroso di sfide. Qual’è oggi il ruolo quindi dell’architetto?
Essere concreti. L’ambiguità di questa sfida all’ambiente, ad esempio, è che parliamo solo di performance. Però si tratta di un fatto tecnico, che non produce bellezza, né permette di creare un nuovo linguaggio architettonico sulla sostenibilità. Ad una vera rivoluzione tecnologica ci arriviamo con una visione umanistica, mettendo insieme i saperi ma senza diventare necessariamente dei poeti della sostenibilità. Si tratta di fare un’operazione ‘verità’, senza raccontarci frottole. Adesso ci dichiaramo tutti a favore della sostenibilità, poi però gli edifici che ci ritroviamo sono tutti vetrati. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirsi qual'è oggi lo stato d'arte delle cose e guardare avanti.
Lei parla spesso di architetture antiche, come ad esempio l’aneddoto del viaggio in Persia di Marco Polo. Come mai, allora, non si rivela nostalgico nel suo linguaggio architettonico?
Io non voglio tornare a fare come negli anni ’90, come ad esempio i seguaci di Léon Krier che volevano ricostruire la città romana. Però guardo al passato con curiosità. Prima della rivoluzione industriale, abbiamo costruito cose meravigliose, territori, palazzi. Vuol dire che in quel percorso millenario che c’è dietro di noi si nascondono dei saperi che noi dobbiamo riacquisire per re-imparare a lavorare in empatia con il clima, e non solo. Ciò, però, non significa che dobbiamo lavorare come gli antichi, perché abbiamo un vantaggio enorme: possiamo guardare alla storia per quello ci può insegnare e sfruttare contemporaneamente la tecnologia. Questo per me è un meccanismo di relazione che potrebbe aprire a scenari meravigliosi.
Io ad esempio ho una passione per le piante che non è d’infanzia ma è molto più reticente, dopo un incontro fatto con Stefano Mancuso. Cos’è che accomuna una pianta a un edificio? Che in principio una pianta, come un edificio, non si muove. La vegetazione ha sviluppato in milioni di anni un sistema di adattamento al clima straordinario. Come fa un albero a sapere che è primavera o a sapere che deve fiorire? Come fa a trasformare CO2 in ossigeno? Il mondo della botanica ci potrebbe insegnare un sacco di cose, e proprio quelle che ci servono in questo momenti. Dunque attingendo un po’ alla storia, un po’ al mondo vegetale, abbiamo una quantità di saperi per cui non dobbiamo produrre nulla di nuovo, è un’avventura di conoscenza.
Secondo lei saremo portati a riconsiderare anche la scala di valori e gerarchie nella progettazione, partendo dal mettere in secondo piano punti di vista più espressivi ed estetici?
Se io vedo quello che c’era prima, l’architettura era un sistema, perché rispondeva ad una serie di condizioni climatiche, culturali, economiche, e ha sempre reagito esprimendosi in modi diversi. Negli ultimi decenni si è espressa solo per aspetti finanziari. Bisogna riniziare a pensare che il progetto necessiti di più tempo e ricerca, perché se da una parte abbiamo l’ambizione, di diventare ecologici, di togliere l’inquinamento, dall’altra abbiamo strumenti ancora vecchi. Però c’è anche una generazione che sta crescendo e questi temi li ha capiti. Quando abbiamo fatto il Padiglione Italia, ad esempio, ho incontrato tanti giovani architetti che volevano restare nel loro paesi. C’è molta motivazione a lavorare su luoghi lasciati fino ad adesso ai margini del dibattito, ed è una cosa importante.
Quali sono, invece, le sue fonti di ispirazioni formali e costruttive?
Guardo molto il paesaggio, è una grande fonte di ispirazione proprio per la molteciplità di messaggi che ci lancia. Anche le architetture del passato mi intrigano, perché c’è molta innovazione nascosta. Sono curioso di pescare dall’origine piuttosto che guardare l’architettura del mio vicino, che è già filtrata da altri pensieri. Noi nello studio abbiamo, ad esempio, un dipartimento di ricerca e sviluppo. Stiamo lavorando con quest’idea di produrre nuovi materiali, senza passare per il sistema produttivo industriale. E lì si apre uno scenario interessantissimo, perché il mondo della natura è una grande forma di ispirazione per il modo in cui si comporta e si adatta. La fonte di ispirazione è molto più bella quando è primitiva: un po’ come quando nel novecento l’arte moderna espressionista guardava la pittura africana.
Al momento il dibattito architettonico sui temi ecologia e sostenibilità è fermo a un punto di vista antropocentrico: si parla di come vivrà l’uomo, di profughi climatici. Lei cosa ne pensa di visioni più speculative portate avanti, ad esempio da Andrea Branzi o dalla mostra Broken Nature (Triennale di Milano, 2019), di una urbanistica intra-specie?
Io credo che il nostro impegno comunque architetti non sia soltanto la sostenibilità degli edifici come obiettivo ma la sostenibilità della vita nelle sue forme, quindi nel costruire edifici o città non bisogna guardare solo alla vita degli umani, ma tutto quello che c’è intorno. L’era che ci aspetta non è soltanto quella ecologica, ma è un po’ un’era della biosfera, della vita che ci è intorno. Gli urbanisti non hanno mai lavorato pensando a questa relazione tra natura e animali. E abbiamo visto invece negli ultimi mesi quando ci siamo fermati un attimo, quanto la natura abbia reagito in termini di presenza. Abbiamo riscoperto le piante, il cielo le stelle. Potremmo partire ad esempio proprio dalla ricucitura tra città e campagna, anche per ricostruire questo legame che io ho chiamato semplicemente una nuova amicizia con il pianeta. Non dobbiamo essere ostili, dovremmo essere più amici.