La città non è una palestra: potremmo condensare in poche battute il contributo intelligente che il libro di Elena Dorato Preventive Urbanism. The role of health in designing active cities (ed. Quodlibet, 2020) aggiunge al dibattito sulla salubrità urbana, ben oltrepassando la rassicurante evidenza che la vita sedentaria, indotta dai modelli urbani contemporanei, abbia conseguenze gravose sulle nostre esistenze.
La città non è una palestra perché, come argomenta Dorato, la ‘vita attiva’ non si esaurisce nell’allenamento motorio, ma evoca i complessi intrecci etici e politici della relazione, spesso scabrosa, tra corpo umano e corpo urbano, su cui da sempre si è tornita la stessa idea di città. Non si può parlare di città senza parlare di corpi; non lo scopriamo oggi, ben avvertiti da una lunga e generosa genealogia di riflessioni, che passa per Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (Botero, 1588) come per Flesh and Stone: The Body and the City in Western Civilization (Sennett, 1996), e ove oggi si colloca anche il lavoro di Dorato. L’impossibilità di scindere città e corpi, non appagandosi di sole questioni fisiatriche, emerge in ogni pagina del libro, la cui seconda parte (Shaping Cities for Health and Movement), ad esempio, è una lucida storia della città raccontata attraverso il corpo, dalla rivoluzione industriale di metà Ottocento, quando nasce l'urbanistica come disciplina moderna, al contesto contemporaneo e ai suoi mutamenti, con ricadute igienico-sanitarie e socio-demografiche che il libro ben inanella.
La città non è una palestra, intesa come spazio specificatamente destinato all’esercizio ginnico, perché rifugge ogni specialismo di luogo vocato ad assolvere una funzione unica e possibilmente definitiva, come nella migliore tradizione dello zoning: “(…) ‘looseness’ represents an additional quality that positively defines the urban public realm, in contrast with those ‘tight spaces’, produced by design and regulation in the attempt to fixedly pre-determine appropriate uses” (p. 45). Una delle argomentazioni più seducenti di Dorato è che l’atomizzazione funzionale della città corrisponda all’analoga dissezione del corpo, ridotto a una meccanica sommatoria di organi con compiti specifici. La scelta del disegno di Leon Krier per la copertina del libro – Zoning of the Body. Functional segregation → Decomposition of the Sensible World, 1978, parte di un corredo di illustrazioni che accompagna la lettura come una narrazione parallela altrettanto avvincente, frutto di una selezione colta e mai banale – è un posizionamento molto forte: la scissione del corpo umano per via di amputazioni per associare a ogni ‘pezzo’ singole funzioni non intercambiabili è la medesima cui sottoponiamo la città. Con i piedi non si pratica ‘solo’ lo sport, come nella vignetta caustica di Krier, ma anche l’urbanistica, diceva Secchi. Con i piedi si fa la città: con i piedi, e con ogni altra parte della nostra sensuale, fragile, fisiologica e politica, individuale e collettiva corporeità.
La città non è dunque una palestra, piuttosto − ed è qui l’aspetto saliente della tesi di Dorato − la città è tutta e ovunque un campo potenziale di ‘attivismo’, inteso non solo come esercizio fisico, ma come l’intensificarsi della vita condivisa operante, dinamica, vivace, libera e creativa: “Active cities have their focus on the public, collective, connective urban spaces: on the great variety of spaces which are freely accessible to the public(s) for the performance of the broadest possible range of behaviors and uses, among which, of course, the practice of physical activities” (p. 35). Non si tratta dunque solo di ‘prevenire’, evitando malanni e patologie, ma di innescare possibilità per relazioni empatiche corpo-a-corpo con la città, attraverso l’azione cardiotonica del progetto, dove il cuore, stante la più classica delle metafore, è centrale motrice del nostro corpo e sede operativa della nostra emotività. Il progetto della città è infatti il vero protagonista di questo volume (scritto prima della pandemia da Covid-19, cui l’autrice dedica un’inevitabile chiosa), in una chiave che appare ancor più flagrante in questo frangente in cui lo spazio pubblico chiede dilatazioni, di dimensione ma soprattutto di senso, cui occorre dare risposte tanto semplici quanto audaci: “New design experimentations, urban tools and procedures need to be developed and applied also in the more conventional spaces of the city, in order to guarantee the features of accessibility and adaptability (…)” (p. 165).
Dopo aver letto il libro e avervi rinvenuto la centralità del progetto, verrebbe voglia di suggerire un’inversione impertinente del sottotitolo, che sposti il baricentro dal ‘ruolo della salute nel progetto di città attive’ (The Role of Health in Designing Active Cities, così recita) al ‘ruolo del progetto per attivare città salubri’ (The Role of Design in Activating Healthy Cities). Perché è questo cui ci sollecita Dorato: interrogarci su come il progetto della città possa avviarne, alimentarne e renderne praticabile la salubrità, che certamente comprende la salute come questione medica, ma non vi si esaurisce. È piuttosto l’idea più capiente e più sfuggente di ‘star bene’ in città. L’idea di benessere, di piacere, forse di felicità.
Immagine di apertura: Leon Krier, Cartoon, 1978