Fino almeno alla metà del Settecento, le coste europee furono, e furono considerate, la pericolosa soglia di un continente che prosperava nell’entroterra. Erano territori selvaggi, presidiati puntualmente da porti fortificati, passaggi forzati per tutti i flussi di uomini e di merci. La nascita del turismo balneare fu stimolata anche da una radicale riformulazione degli immaginari riferiti a mari ed oceani: da abissi tempestosi a bacini benefici, di cui si riconobbero le potenzialità prima curative e poi ricreative. Sui litorali, trasformatisi da retro minaccioso a promettente fronte sul mare, si avviò un processo secolare di costruzione di architetture e infrastrutture per il turismo che, in molti casi, si configurò de facto come la “colonizzazione” di terre vergini, da parte e ad uso di popolazioni non autoctone.
La lunga parabola delle colonie marine, che in Italia si inaugura negli anni ’20 dell’Ottocento, è esemplificativa di questo approccio all’urbanizzazione delle coste: istituzioni pubbliche e imprese private, associazioni assistenziali laiche e religiose, costruiscono presidi isolati in riva al mare, che ospitano comunità di “stranieri” chiaramente delimitate.
Nel marzo del 1985, Domus 659 dedica un lungo approfondimento alle Colonie estive nell’Italia anni ‘30. Un dettaglio del complesso de “Le Navi” di Cattolica, di Michele Busiri Vici (1932, originariamente Colonia Marina “28 ottobre”) trova spazio anche in copertina. Si sovrappone all’immagine principale, ritratto di una Grace Jones più che mai geometrica, immortalata in una controllata esplosione di arti affusolati e di tulle. L’accostamento non scontato tra icona della moda e icona dell’architettura suggerisce alcune riflessioni sui valori formali di questo patrimonio.
Come sottolinea Fulvio Irace nel suo saggio per Domus, il regime concepiva questi edifici come “formidabili macchine propagandistiche dell’impegno per i ceti popolari”. Al tempo stesso, esse “costituirono un laboratorio di sperimentazione per quei giovani architetti desiderosi di misurare nella realtà del progetto l’efficacia dei loro ideali etici ed estetici (…). L’architettura moderna seppe cogliere in pieno la potenzialità espressiva del nuovo tema”. Si trattò di “una straordinaria occasione di sperimentare quella ricerca sull’oggetto isolato nel paesaggio che costituì un momento rilevante dell’intero razionalismo europeo”.
Il carattere sistematicamente iconico delle colonie del ventennio deriva proprio dalla convergenza tra gli interessi di una dittatura affamata di simboli, e quelli di una generazione di progettisti alla ricerca (anche) di nuove estetiche. La rassegna di Domus testimonia della molteplicità di rimandi ed evocazioni: “Le Navi” di Busiri Vici richiamano “un’immagine astratta ed irreale (…) di dischi volanti atterrati, quasi delle costruzioni alla Disneyland”; la colonia “Agip” di Cesenatico, di Giuseppe Vaccaro (1937-1938, originariamente “Sandro Mussolini”) è un “monolite appoggiato tra la strada e il mare”; la colonia di Chiavari, di Camillo Nardi Greco (1935) è una “torre arengario, piuttosto che struttura contenente serbatoi d’acqua, diretto riferimento alla tolda delle navi o poetica citazione dei fari portuali”.
Finita la guerra, alcune grandi aziende statali sono le protagoniste dell’ultima (per ora) “fioritura” di colonie sul territorio italiano, al mare come in montagna: ad esempio l’ENEL e l’ENI, la cui colonia di Borca di Cadore, di Edoardo Gellner (1955-1962), seppur incompiuta, resta una delle realizzazioni più ambiziose e riuscite di questa tipologia. Nell’agosto del 1970, compare sulle pagine di Domus 489 un’altra operazione, meno conosciuta, promossa dall’azienda guidata da Enrico Mattei: il villaggio di Pugnochiuso, sul Gargano, completato nel 1969.
È un raro progetto meridionale di Gianemilio, Piero e Anna Monti, trio milanese che le storie dell’architettura associano soprattutto alla (ri-)costruzione del capoluogo lombardo borghese del secondo dopoguerra. Il tipo di committenza, la scelta degli architetti, le modalità perlomeno “spicce” di gestione dell’affare (ENI richiede, tra le altre cose, la deviazione della statale costiera in costruzione, per non interferire con la sua proprietà): molti elementi si pongono in continuità con l’atteggiamento colonizzatore dei decenni precedenti, che qui si combina con il paternalismo del nord industriale nei confronti di un Mezzogiorno in perenne attesa di sviluppo.
Ma in questa fase matura del modernismo italiano, il rapporto tra architettura e natura è del tutto nuovo rispetto agli antecedenti fascisti. Nel Far South italiano, dove pure tutto sembra essere concesso, il progetto dei Monti ambisce tanto alla propria autonomia formale, quanto ad un inserimento rispettoso nel paesaggio. “Un insieme di costruzioni basse fanno parte di un unico disegno con i percorsi, le piazze, i muri, le zone verdi, il tutto rigorosamente adattato alle curve di livello del terreno (…). L’edificio del ‘Centro’ è stato pensato come una larga e bassa ‘piramide’ (…) tagliata su tre lati da grandi scale, che raccordano l’edificio ai percorsi a diverso livello fra cui esso è compreso”.
Nella storia dell’architettura balneare, il villaggio di Pugnochiuso è un’interpretazione di qualità, ma certo non inedita, del tema dell’integrazione nel paesaggio; in questo breve excursus sulle colonie marine, rappresenta la negazione del totem. Sui litorali sempre più familiari, urbanizzati, infrastrutturati, popolati, l’edificio perde la sua utilità di pietra miliare e quasi scompare, adagiato sul terreno.
Pensato originariamente per i dipendenti SNAM, Pugnochiuso si apre fin da subito anche al pubblico esterno. All’epoca del loisir di massa, diminuisce la coesione e la rilevanza sociale della comunità aziendale, i cui membri si sparpagliano in nuove forme sperimentali di gated community costiere. È iniziata l’era del famigerato impero alberghiero della Valorizzazione Turistica: in altre parole, la stagione d’oro dei villaggi Valtur.