La trasparenza della rete metallica tesse nello spazio qualcosa che non c’è, astraendosi dalla realtà e dalla sua identità visiva. Edoardo Tresoldi crea così un inedito dialogo tra arte e mondo, abbracciando il contesto, mentre gioca nella sua dimensione eterea con astrazioni architettoniche e materiali industriali. Questo incontro tra archetipi classici e segni modernisti genera una prospettiva contemporanea del tutto nuova.
Come nasce un progetto?
Parto dagli elementi fisici, storici e sociali del luogo e dalle sue caratteristiche paesaggistiche e climatiche. Sviscero la relazione emotiva che si instaura tra luogo ed essere umano, costruendo elementi narrativi che possano essere fruiti attraverso quel canale. L’intero progetto viene realizzato dal mio studio secondo un processo partecipato e un confronto continuo. La squadra di allestimento è composta da ragazzi che hanno tutti sotto i 30 anni.
Il tuo immaginario si nutre di…
Di luoghi e persone. Sono sempre stato affascinato dalla sacralità dei santuari e delle chiese, cosa che fa ovviamente parte del mio retaggio culturale italiano. Non c’è cosa che mi emozioni di più del rimanere per ore semplicemente seduto, ammaliato dal racconto spaziale degli altari e delle volte.
Nel corso degli anni hai incontrato l’arte prima, e il cinema poi.
Sono passato da pittore ad attrezzista e da attrezzista a scenografo; ogni fase la mia vita finora ha avuto un obiettivo professionale diverso. Mi accorgo che adesso, da scultore, le mie opere hanno un processo creativo molto simile a quello dell’architettura, pur non essendolo. Al tempo stesso, da autore, cerco sempre di partire da un’idea senza doverla adeguare a format precostituiti.
Il progetto che ti ha coinvolto di più, emotivamente parlando.
Con Siponto la sfida era enorme: veniva proposta la ricostruzione di una chiesa in un’area archeologica importate a un artista – allora 27enne – e non a un architetto. Non c’erano modelli da seguire, abbiamo infatti adottato una soluzione praticamente inedita e non sapevamo che reazione avrebbe avuto il mondo accademico e l’opinione pubblica. Questi salti nel vuoto hanno generato un cantiere esperienziale, emozionante in ogni suo piccolo dettaglio.
Come si crea un dialogo silenzioso ma empaticamente efficace tra spettatore e opera?
Con dettagli e sensazioni sottili, strutturando la progettazione intorno proprio a questa ricerca. Cerco sempre di non avere una visione univoca, ma di individuare un fil rouge emotivo a livello collettivo. Attraverso queste note colorate strutturo il mio racconto, costruisco la mia intimità in uno spazio pubblico, pensando di traslare questa dimensione a chiunque viva quel posto.
Quanto è importante, ogni tanto, sentire la necessità di niente?
Per una sorta di horror vacuidel fare e del pensare, credo sia la grande utopia della mia vita. È legata all’installazione “Pensieri” che ho creato per Sapri nel 2014; l’uomo che guarda il mare raccontava questa necessità. Per me, che son cresciuto in un luogo dove il mare non c’è, era guardare un punto nella campagna dove l’orizzonte è lontano lasciando il resto alle spalle. È la sintesi dello star bene: “non avere la necessità di niente” vuol dire che quello che ci sta attorno ci dà tutto quello che ci serve.
Prenderti il tuo momento con il nulla e desiderarlo diventa un momento di pieno interno. Nel tempo ho sviluppato una poetica legata all’assenza, che non si riferisce al nulla, ma a quello che non è o non c’è.
Ci racconti Etherea?
Sono tre strutture identiche con scale diverse, dove ho utilizzato l’architettura neoclassica come linguaggio per descrivere vari punti di contemplazione. Racconta la relazione che abbiamo con i luoghi: più esattamente il passaggio mnemonico con cui li ricordiamo e li rendiamo nostri.
Definisciti in poche parole.
Con il tempo mi sono accorto che il racconto che sto creando è molto personale, quasi di auto analisi, e legato al mio modo approcciarmi al mondo. Se l’architettura è il mezzo attraverso cui l’uomo diventa spazio, come le mie architetture sono una persona molto espansiva e immagino cose molto grandi, ma dall’altra parte ho una sorta di forte timidezza e trasparenza. Mi lascio permeare dal punto di vista degli altri: è un modo per capire meglio anche il mio.
C’è un posto nel mondo che ti somiglia?
Non ce n’è uno in particolare, ma sicuramente mi porto dietro gli echi dei miei paesaggi: le campagne brianzole, i cascinotti e le architetture spontanee, decadenti e mangiate dalle piante. Ho sempre pensato che quel tipo di architettura fosse il monumento di una sensazione.
Se l’architettura monumentale che racconta le grandi città rappresenta la forza del superuomo, quella decadenza è la debolezza dell’essere umano. Non so se mi somiglia, ma sicuramente è un posto molto evocativo per me.
Cosa ti serve per essere felice?
Devo essere entusiasta. E lo sono nelle situazioni collettive in cui tutte le persone si sentono a casa, libere di vivere determinate circostanze come vogliono ed esprimere la loro bellezza nella maniera più assoluta, creando energia. Questo avviene spesso, sia nelle situazioni personali che in quelle professionali.
Futuro: a cosa stai lavorando?
Ho un nuovo spazio in zona Mecenate a Milano: un grande laboratorio che contiene sia la parte di progettazione che quella di realizzazione. Spero possa diventare una piattaforma di collaborazioni con altri autori. Stiamo preparando un’installazione che verrà presentata a dicembre a Barcellona: continuo a costruire il mio immaginario attraverso il racconto che lo struttura.