Didier Fiúza Faustino: “Il mio lavoro sta nell’introdurre il dubbio nello spazio”

Ispirandosi alla sensazione del déjà vu Didier Faustino ha appena terminato il suo primo progetto d’interni a Ghent: un progetto di seduzione e fisicità.

Abbiamo intervistato l’artista e architetto franco-portoghese, che ci ha fatto visitare il suo progetto appena terminato. Realizzato su incarico di Zebrastraat, centro culturale nel cuore di Gent, gli ha dato liberamente modo di riprogettare il bar e gli spazi di ritrovo del centro. Il risultato ha l’aspetto di una specie di astronave atterrata in Belgio. “Mi piace l’idea di un retrofuturismo, o forse piuttosto di un futuro di fantasia”, spiega Didier Faustino. “Mi piace immaginare uno spazio senza età: in questo spazio sembra che ci siano dei riferimenti, ma potrebbe anche essere classico, passato ma senza futuro, futuro ma senza passato.”

Fig.1 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.2 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.3 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.4 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.5 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.6 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.7 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.8 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.9 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.10 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.11 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.12 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.13 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018
Fig.14 Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018

Sembra la naturale continuazione di Cosmogonie, il tuo precedente progetto per Hermès.
È curioso, perché non stavo lavorando su questi temi: non mi interessava portare un’“atmosfera” in un edificio. E poi tanto Hermès quanto Zebrastraat me ne hanno dato modo. Insomma, dovevo pensare non a come riprodurre un’atmosfera esistente ma a come contribuire a creare un’atmosfera più emotiva, che riguardasse il modo in cui le persone interagiscono emotivamente. Non era facile. Per quanto riguarda il repertorio delle immagini ho pensato all’elasticità mentale, quando il cervello è un po’ stanco e si ha questa sensazione di déjà vu, questa sensazione di familiarità. La trasmissione dell’informazione viene ritardata di qualche nanosecondo, e perciò si ha la tipica sensazione di aver già visto una cosa: è solo un momento di malfunzionamento del cervello. Mi piace creare qualcosa di familiare, qualcosa di proche ma contemporaneamente inatteso. Qualcosa di emotivamente desiderabile. Qualcosa che sta tra il sogno e l’astronave, un sogno di fuga, il sogno di un corpo meccanico.

Qualcosa di post-umano?
C’è la fantasia di come si trasformeranno i nostri corpi. Per esempio questa decorazione della superficie, rosa pallido, parla del derma. Come posso lavorare su questo concetto del derma nello spazio e nel tempo? Non è un derma perfetto, chirurgico: per questo ho usato il marmo, più vecchio nel tempo. Per me l’architettura, o lo spazio, devono possedere un’ambiguità, devono avere la potenzialità di mettere in discussione l’uso e il comportamento. Il mio lavoro sta nell’introdurre il dubbio nello spazio. Il dubbio ci mette in una condizione in cui possono avvenire cose inattese. Se sei nel dubbio sei vivo! Con l’arredamento si ottiene una cosa un po’ sensuelle, érotique, corporelle.

Mi piace creare qualcosa di familiare, qualcosa di proche ma contemporaneamente inatteso. Qualcosa di emotivamente desiderabile. Qualcosa che sta tra il sogno e l’astronave, un sogno di fuga, il sogno di un corpo meccanico.

È il tuo primo interno di bar. Parlaci dell’arredamento.
Abbiamo un po’ modificato l’architettura, molto rapidamente: cercavamo più intimità. Abbiamo ricostruito l’ingresso e il bar, in modo che si potesse vedere la scultura di Panamarenko appesa al soffitto. Al piano superiore chi esce dalle sale di riunione ha più spazi accoglienti dove sedersi, delle piccole nicchie con delle piante. Ho progettato una seduta di plastica che prima è stata un prototipo, poi l’abbiamo prodotta insieme con il committente. Si chiama Delete yourself e ha richiesto tre mesi di studi, estremamente audace in termini ingegneristici. Il concetto fondamentale consisteva nel realizzare uno stampo per due forme differenti: una squadrata, una ricurva. È estremamente leggera e facile da spostare, e crea un paesaggio interno senza soluzione di continuità. Poi ci sono delle parti curve e dei tavoli a Y fatti di un composito di alluminio ricoperto da uno strato di 3 millimetri di marmo di Carrara, facili da trasportare e da montare. L’ambiente va dal rosa pallido al colore della pietra naturale, al verde.    

Didier Fiuza Faustino, XYZ lounge, Zebrastraat, Ghent, 2018

Si vive in una specie di ‘epoca rosa’. Perché il rosa?
Ne abbiamo discusso parecchio, in studio. Prima di tutto dovevo equilibrare i colori e il complementare del kaki e del verde oliva era il rosa acceso. Viviamo in un periodo rosa? Non ho risposte a questa domanda, è questione dell’atmosfera dell’epoca, credo. Negli ultimi due secoli il rosa è stato associato alla femminilità, ma se si guarda alle origini era un colore maschile. Forse questo ha a che fare con l’interpretazione di questo concetto. A me piacciono il rosa, il kaki, il tono scuro che porta a un momento sublime; lo stesso vale per l’oro. È una liberazione del codice. Vraiment, amo il color cipria, i colori antichi, i colori della pelle. Nel nostro studio fanno parte del DNA, come il nero lucido.    

Il progetto può indurre una trasformazione del programma culturale di un luogo?
Sì, se è preparato con attenzione. Quando ho avuto questo incarico mi fu chiesto di far qualcosa che trasformasse l’ambiente, il che implica il modo in cui qui le persone lavorano, l’idea del bar che diventa un luogo d’incontro. Ora stiamo lavorando su questo: spazio, arredamento e manipolazione del comportamento. È questo che mi interessa nell’architettura: uno strumento per generare situazioni nuove, e forse il colore è un elemento di propaganda, che altera certe posizioni precostituite.

Qui è tutto poroso, ogni cosa invita a toccare.
L’ergonomia non fa parte dei compiti di questo arredamento. È più che altro il modo in cui lo usiamo. È puramente erotico. A me interessa la consapevolezza dei nostri atti nello spazio. Una sedia per me non è un elemento di ergonomia, di abbandono, è qualcosa di attivo, che rende più consapevoli e reattivi. Per esempio la sedia Delete yourself è una semplice struttura, dove non viene voglia di sedersi. Ma, quando lo si fa, si cerca di trovare una posizione, ed è questo il momento di consapevolezza e di atto sociale. Non solo star seduti. Quando ci si siede si compie un atto, ci si mette in mostra. Fa parte della comunicazione, dell’attrazione, è qualcosa di performativo, come nel mio progetto Love me tender.

Didier Fiuza Faustino, sedia Delete yourself, 2018

Parli di fisicità, ma viviamo in un’epoca di dematerializzazione, prendi per esempio i social media e la digitalizzazione.
Non ho un posizione critica in materia, non mi pare che stiamo perdendo qualcosa. Quel che trovo positivo nella socialità di quest’epoca è che acquistiamo una maggior capacità di diventare più selvaggi. Di ritornare a un istinto selvatico. Questa estrema condivisione dell’intimità genera possibilità nuove: prima eravamo educati, domesticati, e oggi abbiamo la possibilità di ‘ripartire da zero’ molto rapidamente. C’è qualche punto critico in questo, ovviamente, si può rovinare qualcosa ­– una situazione, una reputazione – se non si è sicuri. La rapidità con cui si spargono le voci trasforma la confusione in verità. Questo è il pericolo. D’altra parte si può ricostruire tutto. Oggi mi mostro nudo, domani faccio sparire l’immagine e due giorni dopo tutti se ne sono dimenticati. Le persone sono sempre più ‘golose’, il cervello diventa un metasistema esterno dove si vogliono vedere le foto o i messaggi. Ma contemporaneamente il corpo chiede di più. Abbiamo bisogno di maggiore fisicità, di più desiderio, di più tattilità. Anche se abbiamo accesso a tutto, il corpo è più potente del cervello. Nessuno ha più paura della propria unicità e della propria individualità. Prima era impossibile. Perfino progetti d’architettura totalmente dimenticati oggi ritornano visibili, i social media li riportano in vita. Prendiamo per esempio l’edilizia popolare di Ricardo Bofill.

È questo che mi interessa nell’architettura: uno strumento per generare situazioni nuove, e forse il colore è un elemento di propaganda, che altera certe posizioni precostituite.

Come scegli gli incarichi?
Ho una sensibilità molto animale. Se ho una buona sensazione va bene, parto. Certe volte mi sbaglio, ma il punto è proprio la sensazione del momento. È un fatto di seduzione, di eros, assolutamente. Per far qualcosa ho bisogno di farmi sedurre, devo provare, inventare, ho bisogno di condividere delle idee: è questo che fa funzionare la macchina.    

Ora a che cosa stai lavorando?
Da quattro anni mi occupo di produzioni totalmente underground. Ho deciso di fare qualche costruzione, ora che ho un patrimonio più completo di teoria e di sperimentazione. Dopo aver vissuto degli anni a Parigi, facendo avanti e indietro tra due paesi, tra due città, oggi mi sono sostanzialmente stabilito a Lisbona. Non è stato facile farsi accettare dagli architetti portoghesi, ero considerato un estraneo, una persona totalmente strampalata con una preparazione architettonica differente. Sono pienamente portoghese e pienamente francese, e perciò pago le tasse in entrambi i paesi: mi piace così. Non sto solo tra un paese e l’altro, sto anche tra l’arte e l’architettura, per sopravvivere mi piace giocare con i due sistemi. Ma lo faccio in modo trasparente, non ho una doppia vita come certi studi che per sopravvivere accettano incarichi di nascosto. Intellettualmente, concettualmente, il lavoro salta sempre da una situazione all’altra, e mi dà una specie di… comme on peut definir ça… una specie di condizione selvaggia. Prendiamo Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, quel momento di insicurezza nell’agire in cui saltello a destra e a sinistra, in su e in giù. Il che mi dà la capacità di cambiare, di elaborare rapidamente nuove idee. È meno comodo di quanto sarebbe se si trattasse di una cosa molto lineare, ma è stimolante e preciso in termini di progetto. Insomma, questa è la mia condizione di oggi. Stiamo elaborando due progetti in Portogallo – una cappella e un’abitazione – poi un progetto nella Francia occidentale, uno a Città del Messico, una mostra in Portogallo, e sto anche collaborando con uno stilista di Los Angeles.

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