Junya Ishigami a Parigi: liberare l’architettura, la struttura, il contesto

Leggerezza e trasparenza, semplicità e comunione con la natura sono le parole chiave per leggere il lavoro di Junya Ishigami in mostra alla Fondation Cartier di Parigi.

“Junya Ishigami, Freeing Architecture”. Photo © Luc Boegly

Il titolo della mostra è conciso e programmatico “Freeing Architecture”, altrettanto la domanda che rivolgiamo a Isabelle Gaudefroy, curatrice della personale dedicata all’architetto giapponese: da cosa va liberata l’architettura? “Freeing Architecture è il manifesto di un architetto che realizza dei sogni: i suoi e quelli di una società che non ha smesso di credere che il funzionalismo non sia la sola risposta. Ishigami presenta un vero e proprio corpus di opere che mira a esaltare il desiderio di liberare l’architettura dalle costrizioni del peso, della materia, delle forme: sono queste le sue preoccupazioni”. Oltre a 20 grandi modelli e video dei suoi progetti più ambiziosi, la mostra alla Fondation Cartier è arricchita da un catalogo che traccia in modo chiaro la genesi dei lavori di Ishigami tra i quali include i suoi disegni di paesaggi minuti e dettagliati che sprigionano la poesia dei suoi lavori. Indifferentemente dalla scala, Ishigami non pone limiti al progetto e lo legge attraverso una creatività sottile, mai banale, sempre intrisa di trovate o effetti inaspettati. L’architetto giapponese ha una passione forte per la natura e non disdegna il mondo dei sogni come fonte d’ispirazione primaria.

Liberare la struttura
Nella selezione di opere presentate si respira libertà: quella che Ishigami dichiara come “Freeing Architecture” è in realtà un’ossessione per progetti con una spazialità a tratti geniale ma eccessiva, quasi onirica. In tal senso, la mostra va letta come un invito a esplorare senza pregiudizi le proposte di un architetto visionario che non ha timore di esagerare e andare oltre. Anche se Ishigami seleziona per questa mostra opere realizzate e in costruzione, ogni suo progetto è una riflessione spinta in tutti i suoi dettagli strutturali, compresi la tecnologia costruttive e la messa in opera. Non è un caso che le strutture di molti suoi progetti siano affidati a Jun Sato, forse il più brillante ingegnere strutturista giapponese della sua generazione. Nella sua ricerca è centrale il desiderio forte di offrire soluzioni strutturali nuove che non contemplino l’uso di un generico sistema trave-pilastro. In particolare, il progetto per otto ville a Dali, in Cina, include massi giganti per assolvere una duplice funzione: come sistema strutturale e come elementi di divisione dello spazio. Le pietre megalitiche presenti nella regione sono utilizzate per supportare un tetto in cemento armato lungo 300 metri. I massi – così utilizzati – producono un paesaggio interno sinuoso, diviso da ampie partizioni vetrate e intervallato da aperture zenitali che illuminano gli interni. La fluidità degli spazi del progetto House and Restaurant a Tokyo ricorda alcune sperimentazioni di Oscar Niemeyer sullo “spazio negativo” e la realizzazione di Ryue Nishizawa per il Teshima Art Museum. La tecnica costruttiva consiste nell’utilizzare la terra come cassaforma naturale: nello specifico, buche profonde, armate da ferri e riempite di cemento. Una volta asciugato il cemento, la terra viene rimossa liberando la struttura. Il risultato è un’architettura organica che ottimizza il modo costruttivo a vantaggio di un’estetica naturale. Il progetto per il Parco Groot Vijversburg in Olanda, non presenta pilastri, ma un vetro strutturale che permette una relazione fra interno ed esterno senza alcuna interruzione visuale. Il tetto curvo lungo 100 metri per la Multi-purpose plaza dell’Università di Kanazawa  è composto da una lastra  di acciaio spessa appena 12 mm dove non vi sono pilastri: trae vantaggio dalla geometria curva per ottimizzare la distribuzione delle forze.

Liberare il contesto
La relazione che Ishigami instaura con il contesto ha un duplice aspetto: da un lato s’ispira a fenomeni quali le costellazioni, le nuvole e le foreste (come nel KAIT Workshop); dall’altro la riflessione progettuale si estende al progetto e i suoi dintorni. Per esempio nella House in the East of Japan non esita a movimentare una grande quantità di terreno per avere una collina con un declivio con la stessa curvatura del tetto dell’abitazione, che produce un effetto di perfezione e armonia. In questo senso, risuona attuale lo scritto di Peter Wilson Western Objects, Eastern Fields dove all’oggetto occidentale, corrisponde il concetto di area. Se in alcuni casi mette in dialogo con l’esistente, in altri non esita a creare un intero nuovo mondo per le sue opere, o a invadere in modo forte paesaggi con mega-strutture di memoria Metabolista, dove un grande unico gesto è preferito a un’articolazione sottile. Il progetto del Centro Culturale nella Provincia di Shandong in Cina è una camminata coperta lunga 1 km, su una lingua di terra artificiale circondata dall’acqua: chiaro è il riferimento all’architettura vernacolare dei palazzi d’estate cinesi. Nel progetto del Ferry Terminal di Kimmen in Corea del Sud, le colline artificiali ricordano le prime architetture nascoste di Kengo Kuma in stile anti-object: colline sotto le quali si cela un’enorme infrastruttura.

Liberare l’architettura
I progetti di Ishigami vanno difesi da possibili facili critiche architettoniche sull’aspetto onirico irrealizzabili o inutili. Su tutti spicca il progetto per la Cappella nel bosco in Cina: appena 132 mq di cappella nel bosco con mura alte 45 metri. Le pareti, realizzate in cemento  armato, sono eccessivamente alte e sproporzionate: con la stessa quantità di cemento se ne potrebbero costruire parecchie di cappelle. Il pensiero dell’eccesso di Ishigami va però visto come un toccasana. Non sono le norme, l’austerità del mezzo o il risparmio delle risorse che contano, ma il proposito, il fatto che uno spazio può essere compresso e poi liberato. Contano la qualità della materia e la sua messa in opera; il messaggio estetico e l’alchimia quasi infantile che mette insieme prodezze ingegneristiche, spazio e paesaggio.

Junya Ishigami. Photo Renaud Monfourny
Junya Ishigami. Photo Renaud Monfourny

Estetica come madre delle invenzioni
Visitando la mostra, vengono in mente gli scritti di Cyril Stanley Smith, che già negli anni Ottanta sosteneva che la selezione estetica è stata centrale all’evoluzione, sia genetica sia culturale. Senza la curiosità estetica forse non saremmo sopravvissuti o saremmo rimasti all’età della pietra. Per il professore emerito in Scienza dei materiali al MIT – nonché metallurgista – gran parte delle invenzioni dell’uomo ha fatto la sua comparsa nelle applicazioni decorative: la ruota, per esempio, appare prima in monili decorativi e giocattoli per bambini. Innovazione e scoperta non nascono sotto la pressione del bisogno e l’estetica primeggia sulla funzione. Ishigami ha una grande capacità di unire scienza e poesia e avventurarsi in territori incogniti. Il mondo architettonico ha bisogno d’immaginare risposte nuove, ha bisogno di andare al di là delle sue preoccupazioni attuali legate a geometrie, forme, azioni, programmi ed energia. In questo senso, “Freeing Architecture” è un’azione liberatrice che porta una ventata di freschezza.

Titolo mostra:
Freeing Architecture: Junya Ishigami
Curatore:
Isabelle Gaudefroy
Date di apertura:
30 marzo – 10 giugno 2018
Sede:
Fondation Cartier pour l’art contemporain
Indirizzo:
261, boulevard Raspail, Parigi

Ultimi articoli di Architettura

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram