L’AT&T Building di Philip Johnson, un edificio-icona del Postmoderno e uno dei più controversi, provocatori (e quindi amati), dello skyline newyorkese è di nuovo al centro del dibattito architettonico. Completato nel 1984, definito da Ada Louise Huxtable un’opera di “intelligente cannibalismo”, che si guadagnò al tempo la copertina di Time Magazine, è entrato nella lista degli edifici in pericolo di parziale demolizione.
Il progetto, firmato da Snøhetta, di “reinterpretazione” dell’atrio e del basamento dell’edificio è stato presentato a ottobre 2017 dai nuovi proprietari dell’edificio, il gruppo Olayan Group-Chelsfield, che ha l’obiettivo di trasformare l’ex quartier generale AT&T (successivamente Sony Tower o Sony Plaza) in un moderno e attraente edificio a uffici in grado di attirare nuovi prestigiosi inquilini in quello che si chiamerà “550 Madison Avenue”.
Lo scarso materiale di progetto fornito alla stampa mostra la trasformazione della lobby in spazio a uso misto commerciale e pubblico, la costruzione di un giardino “leggermente più grande di quello del MoMA” – secondo quanto dichiarato da Chesterfield – e un intervento invasivo sul basamento con la demolizione del portico originale a favore di una articolata facciata in vetro che rende leggibile la struttura in acciaio dell’edificio, originariamente camuffata da un rivestimento in pietra.
Alle proteste dei cittadini si sono aggiunte le critiche di Robert Stern, Richard Meier e Norman Foster. Thomas Collins (attivista per la tutela del patrimonio architettonico, già impegnato nella battaglia di preservazione del Rizzoli Building sulla 57ma, demolito nel 2014) che, a fine ottobre ha iniziato le procedure per la salvaguardia dell’edificio.
La Landmarks Preservation Commission (LPC) l’ha ufficialmente presa in considerazione a novembre. Chiarendo però, fin da subito, che solo le facciate sarebbero state eventualmente oggetto della tutela, escludendo l’atrio d’ingresso e gli spazi attigui. L’esclusione degli spazi interni al piano terra dell’edificio è stata motivata dalla Commissione con il fatto che tali spazi erano già stati oggetto di un progetto di trasformazione nel 1993 a opera di Gwathmey Siegel (a lui si devono, tra le altre cose, le tamponature vetrate delle grandi arcate su Madison Avenue, originariamente aperte nel progetto di Philip Johnson). Questa scelta appare come un compromesso tra esigenze di tutela e interessi del mercato immobiliare: a metà dicembre la proprietà ha infatti presentato il permesso di eseguire i lavori di demolizione nell’atrio e nei suoi spazi attigui al Department of Buildings (DOB) di New York che ha rilasciato l’autorizzazione a procedere lo stesso giorno.
Al momento, la notizia non confermata è che le demolizioni dell’atrio sono già iniziate: se questo fosse vero, saremmo testimoni della cancellazione di uno dei più significativi e iconici spazi del movimento postmodernista. Liz Waytkus, Executive Director di Docomomo US, attivamente impegnata nella campagna di conservazione, ci spiega che “l’AT&T Building è il più importante edificio Postmoderno, probabilmente al mondo. Non siamo sicuri al 100% che la lobby sia stata demolita. Quello che posso confermare, dopo aver studiato attentamente l’edificio, è che il piano terra è parte integrante del design. Demolire la lobby significa demolire il cuore del progetto”.
Non si hanno conferme né sulla demolizione, né sullo stato di landmark delle facciate, né su cambiamenti nel progetto di Snøhetta. L’ufficio stampa della sede newyorkese dello studio, interpellato per eventuali commenti in merito, non ha potuto rilasciare dichiarazioni o informazioni sulle ultime fasi del progetto, confermando però che una nuova versione è in via di studio. Pare evidente che la voce degli architetti sia la parte mancante del dibattito di questi giorni attorno all’AT&T, cristallizzato tra le ragioni degli sviluppatori immobiliari e quelli della tutela tout-court. Snøhetta è uno studio di architettura capace e che ha mostrato sensibilità progettuale in diversificati e delicati contesti in passato: il loro approccio progettuale, una volta svelato in dettaglio, potrebbe davvero essere il punto di equilibrio tra le due posizioni.
Per quanto riguarda il tema della conservazione di edifici costruiti in anni sempre più recenti, sembra interessante invece sottolineare il lavoro di Docomomo che, seguendo il suo motto “moving modern forward” e come ci spiega ancora Liz Waytkus, “sta focalizzando la sua attenzione su edifici sempre più recenti, includendo quelli risalenti agli anni Ottanta e Novanta. Stiamo considerando siti significativi che pongono l’attenzione sui valori del Modernismo più che su uno stile o periodo intesi come tali. Un edificio come l’AT&T può essere definito postmoderno nel design ma, guardandolo attentamente, è piuttosto chiaramente un edificio a uffici modernista in acciaio e vetro, anche se con un capriccio stilistico sulla sommità e un bel po’ di granito alla base. L’edificio di Michael Graves a Portland è destinato tristemente a essere trasfigurato; stiamo seguendo attentamente il primo progetto di Arquitectonica a Miami, i Babylon Apartments, che sono classificati ma comunque a rischio”.
Un articolo di Metropolis del 2014 (The Po-Mo Watchlist: NYC’s Endangered Postmodern Architecture) segnalava d’altronde già l’AT&T sulla lista di edifici a rischio, in compagnia di molti altri dal futuro incerto, tra cui il Lipstick (Philip Johnson, 1986), AXA Equitable Building (Edward Larrabee Barnes,1985), ONE UN New York (Kevin Roche, John Dinkeloo, and Associates, 1975,1983), e la Banca Commerciale Italiana (1982–1986) di Gino Valle.