Lanciata l’anno scorso dal palco dello Stadsschouwburg di Amsterdam, quando ancora l’emergenza umanitaria e politica non si era ancora rivelata nella scala attuale, la Refugee Challenge è senz’altro stata l’elemento che più ha definito l’ultima edizione di “What Design Can Do”, il festival olandese sull’impatto del design.
The Refugee Challenge
L’attuale drammatica sfida dei rifugiati è stata centrale anche nell’ultima edizione di “What Design Can Do”. Tra i progetti premiati, AGRIshelter, alloggi in materiali durevoli, ma biodegradabili e a km 0.
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- Nicola Bozzi
- 26 settembre 2016
- Amsterdam
Tutto è nato da uno dei progetti più interessanti allora presentati: il Flatpack Shelter, collaborazione tra la Fondazione Ikea e l’agenzia dell’ONU per i rifugiati. Il sistema abitativo modulare è concepito per fornire un alloggio facilmente trasportabile e contemporaneamente personalizzabile, venendo incontro alle necessità ambientali e di budget senza compromettere però la dignità degli spazi per gli occupanti. L’affinità con il concetto di design democratico di Ikea non è difficile da individuare nel progetto, ma il coinvolgimento della fondazione nell’attuale sfida – alla quale hanno partecipato 631 proposte da 70 nazioni – implica un’espansione del concetto e una ridefinizione del rapporto tra la compagnia, la fondazione e la comunità del design.
“Speriamo di portarla al prossimo livello”, mi racconta Jonathan Spampinato, a capo della comunicazione e del planning strategico della fondazione. “Lavoreremo a stretto contatto con i vincitori per vedere quali di queste idee possono diventare davvero soluzioni plausibili per le famiglie di rifugiati”. I progetti finalisti ricevono un budget di 10.000 € ciascuno e un servizio di coaching da parte della fondazione stessa, in modo che i rispettivi team possano trasformare le proprie proposte in un prototipo e un business-plan.
Venendo quindi alla selezione, si tratta di un campione abbastanza eterogeneo, ma non senza i suoi trend. Per quanto riguarda la diversità umana, “Reframing Refugees” è per esempio una piattaforma digitale dove i rifugiati possono caricare le proprie storie tramite foto scattate via smartphone, mentre “Eat & Meet” converte bus in food-truck così da permettere la condivisione di cibo e cultura in modo sociale. Altri due progetti si concentrano su housing ed economia circolare, sfruttando risorse locali: “AGRIshelter” costruisce alloggi in legno e materiali durevoli, ma biodegradabili a km 0, mentre Makers Unite coinvolge nuovi arrivati e cittadini europei nel co-design di prodotti e narrative, per esempio tramite l’upcycling dei giubbotti di salvataggio e delle barche rimaste sui litorali greci. Infine, la Welcome Card sfrutta la tecnologia RFID per permettere ai richiedenti asilo di controllare il proprio status.
Oltre a rappresentare il climax della conferenza – i progetti finalisti sono stati rivelati in chiusura – la sfida è stata un vero e proprio leitmotiv dell’evento. Interessante è stata l’accesa break-out session moderata da Marcus Fairs, dove l’organizzatore Dagan Cohen e i portavoce delle organizzazioni coinvolti si sono confrontati con alcune voci critiche, come Ruben Pater. A generare controversia è stato soprattutto il modo di comunicare la sfida, che alcuni hanno interpretato come troppo focalizzato sul design come soluzione a problemi economico-politici che andrebbero affrontati dai governi europei piuttosto che da comunità creative. Un’altra critica ha riguardato la rappresentazione dei rifugiati come un’entità omogenea e “altra”, invece che come un gruppo variegato che diventerà inevitabilmente parte del tessuto sociale su lungo termine. Alcune delle perplessità (quella sul framing dei rifugiati, per esempio) hanno trovato risposta nella selezione finale, ma al di là delle opinioni espresse il dialogo ha aggiunto un po’ di profondità a una conferenza che ha toni tradizionalmente celebrativi.
Chiedo a Spampinato cosa ne pensa delle critiche alla competizione. “Non c’è una soluzione privata o governativa per il momento, è un problema troppo grosso per essere affrontato da un solo settore”, mi spiega. “È chiaro che c’è bisogno della partecipazione di altri agenti. Sono d'accordo sul fatto che siano problemi seri, ma non credo che ci sia solo un gruppo designato a occuparsene. Penso che la storia della filantropia e del business in questo momento si stia muovendo su modi innovativi per uscire dalla propria struttura”.
A proposito di struttura, gli chiedo se ci siano modi – oltre a sfide come quella di WDCD – in cui un brand come Ikea possa sfruttare il proprio peso e la propria presenza internazionale per bypassare queste barriere istituzionali. Mi fa l'esempio di un programma in Svizzera, dove la compagnia offre stage ai rifugiati per facilitare l'integrazione nella società, dove sarebbe altrimenti difficile trovare lavoro senza esperienza. “Parte del problema è concettuale, va dalla struttura legale internazionale fino a quella locale. È una sfida, ma vogliamo migliorare la vita della gente e non possiamo lavorare in astratto e dire che sarebbe meglio se le cose fossero diverse. È per questo che ci piace lavorare con i designer, sono realisti.” In questo Spampinato sposa lo spirito ottimista di WDCD: “Tutti adesso si stanno concentrando sui dati più preoccupanti, ma questo non aiuta. Dobbiamo guardare dove c'è uno spiraglio di luce e andare in quella direzione”.
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