“A questo libro, o Lorenzo, ti consiglierei di dare un posto preminente nella tua biblioteca, e inoltre di leggerlo tu stesso attentamente e di farne diffondere la lettura presso il pubblico”, [1] scriveva Angelo Poliziano al suo protettore Lorenzo de’ Medici, virtuale signore di Firenze, nel 1486.
Letters to the Mayor
Nel 2014 Storefront for Art and Architecture ha varato Letters to the Mayor, un progetto, ancora in corso, pensato per mettere in risalto il rapporto talvolta trascurato tra architetti e amministrazioni locali e per facilitare un nuovo dialogo.
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- Gideon Fink Shapiro
- 05 aprile 2016
- New York
Il libro in questione non era altro che il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, il cui Prologo comprendeva un consiglio al principe: “[…] La sicurezza, l’autorità, il decoro dello stato dipendono in gran parte dall’opera dell’architetto.” I cittadini avrebbero nutrito eterna gratitudine, afferma l’Alberti, per un principe che commissionasse edifici e opere pubbliche di qualità. Lorenzo gli diede ascolto.
Anche oggi architetti e politici hanno bisogno gli uni degli altri. Gli architetti vogliono aver modo di costruire, mentre i politici cercano il modo di imprimere il loro lascito culturale nei luoghi che governano. Ovviamente spesso hanno obiettivi e prospettive differenti, e alcuni preferiscono non aver nulla a che fare con la controparte. Ma la generazione attuale di sindaci energici, militanti sociali e urbanisti propositivi sta delineando nuove convergenze tra architettura e politica urbanistica.
Nell’aprile 2014 Storefront for Art and Architecture ha varato Letters to the Mayor [“Lettere al sindaco”], un progetto pensato per mettere in risalto il rapporto talvolta trascurato tra architetti e amministrazioni locali e per facilitare un nuovo dialogo. A cura di Eva Franch i Gilabert e Carlos Mínguez Carrasco di Storefront, il progetto ha debuttato a New York con una mostra di 50 lettere scritte da architetti di ogni paese ai governanti di oltre venti città. L’itinerario del progetto ha avuto ulteriori tappe a Panama City, Mariupol, Bogotá, Taipei, Atene, Città del Messico e Buenos Aires (le ultime tappe della mostra si apriranno a San Paolo del Brasile nel luglio 2016 e a Lisbona nell’ottobre seguente). Secondo Storefront “ogni lettera offre all’architetto uno spazio di riflessione per presentare idee e metodi, ed esprime interessi e intenti che possono contribuire all’azione negli ambienti politici”. Ne risulta un imponente spaccato della consapevolezza da parte degli architetti del loro compito di dar forma alla vita della città e dei cittadini.
Nello spirito del trattato dell’Alberti, le lettere di oggi sono implicitamente indirizzate ad altri architetti oltre che alle autorità di governo. Che i sindaci leggano realmente una delle lettere o vi badino, resta da vedere. Ma Letters to the Mayor usa il progetto d’allestimento come riferimento alle dinamiche del potere, del patrocinio e dei processi creativi. Ogni spazio in cui le lettere vengono esposte comprende una simbolica ‘scrivania del sindaco’ e un simbolico ‘tavolo dell’architetto’. Per esempio nell’allestimento del 2015 a Mariupol, in Ucraina, i designer di IZOLYATSIA hanno contrapposto una scrivania del sindaco da “riccone”, bizzarramente avvolta in finta pelliccia, all’umile scrivania di legno dell’architetto, confinata in un angolo.
A Buenos Aires il Grupo Bondi (Eugenio Gómez Llambi, Iván López Prystajko) ha fuso lo spazio di lavoro del sindaco e quello dell’architetto in una specie di stratificazione: una massiccia scrivania da burocrate coperta di chiazze colorate di pigmento a cera (alla maniera delle opere in colatura di lattice di Lynda Bengli degli anni Sessanta), che gocciolano giù dai bordi e schizzano il pavimento. Le si può leggere come il residuo degli appassionati tentativi degli architetti in favore delle loro amate città, che talvolta non sfociano che in uno spreco di inchiostro, di sforzi e di vita. Ma in alternativa possono rappresentare la vendetta dell’architetto sul burocrate che impedisce la realizzazione delle sue migliori idee: un’orgia di colori violenti invade tutta la scrivania, rendendola inutile ma in definitiva bella: un monumento alla frustrazione del processo creativo. Un terzo elemento inserito in ognuna delle tappe dell’itinerario di Letters to the Mayor, oltre alle lettere e alle scrivanie, è una decorazione murale che riflette idee e questioni specifiche di ciascuna città.
La più recente messe di lettere (39 da Città del Messico, esposte in occasione del festival di architettura urbana MEXTRÓPOLI) comprende vari appelli alla tutela e alla valorizzazione dello spazio pubblico destinato ai pedoni, con i relativi limiti alla privatizzazione. “Dobbiamo tornare a usare vie e piazze, all’incontro collettivo […] nella convinzione che l’uso frequente, coerente e intenso renda lo spazio sicuro e migliori la qualità della vita di tutti i cittadini”, scrive Benjamín Romano (L.BR&A). L’architetto Erika Loana esorta il sindaco a tener presente “il profondo e complesso rapporto tra i corsi d’acqua di Città del Messico” e la necessità di ripensare le infrastrutture idrauliche a fronte dello sviluppo urbano. Fernanda Canales delinea la conversione dell’attuale aeroporto in un nuovo, enorme spazio pubblico in seguito al completamento del nuovo aeroporto. Assumendo una posizione sorprendentemente personalistica Raúl Cárdenas Osuna (Torolab) pone al sindaco una domanda privata: “Tenendo presente che la città è il riflesso dei suoi cittadini ma anche dei suoi governanti, che cosa cambierebbe in lei come cittadino, per migliorare la città?” Ancor più sorprendente è la proposta avanzata da Pablo Kobayashi (Unidad de Protocolos) di abolire il titolo di architetto, divenuto secondo lui “obsoleto” nel clima attuale di edilizia e urbanistica fai-da-te.
Sarebbe interessante analizzare le argomentazioni, la forma e il tono di tutte le centinaia di lettere che fanno parte del progetto nel suo complesso. Per il momento occorre accontentarsi di alcune prese di posizione generali, accompagnate dalle relative citazioni. Prevale la forma della lettera professionale, ma certi autori hanno preferito una struttura e un trattamento grafico più particolari. Certe lettere sono accompagnate da disegni e da libri pop-up (uno dei filoni prediletti della galleria). Alejandro Hernández Gálvez (Arquine) ha adattato il suo testo in forma di mappa in funzione di un’argomentazione sull’identità di Città del Messico che va al di là delle definizioni amministrative. Per la maggior parte le lettere hanno un tono diplomatico e professionale, ma non mancano numerosi esempi di scrittura più polemica, personale e speculativa. Con un inedito voltafaccia autorale Ana María León (University of Michigan) ha redatto le sue esortazioni chiedendo agli abitanti di Guayaquil, in Ecuador, di presentare attraverso Twitter le loro idee, che ha poi riassunto in un documento di sei punti indirizzato al sindaco della città.
Scopo evidente di molti interventi è indurre i capi politici a servirsi del potere del pensiero progettuale, e ovviamente a servirsi degli architetti. “Si rivolga ai membri della sua comunità progettuale e culturale. Siamo qui per aiutarla […] a creare una città più sana per viverci, imparare, crescere e rinnovarsi”, esorta nel 2014 Marion Weiss (Weiss/Manfredi) il sindaco di New York Bill de Blasio. La critica Alexandra Lange, anche lei newyorchese, pone la questione del valore civile del progetto: “Il progetto non è la ciliegina sulla torta o un’attrazione turistica, è la capacità di risolvere i problemi”. Certi interventi si scagliano contro i progetti banali. “La città che lei sta sovrapponendo a quella preesistente non sarà mai celebrata nelle canzoni”, dichiara al sindaco di Kuwait City l’architetto Zahra Ali Baba. Ellie Abrons (EADO) lancia la sfida al sindaco di Ann Arbor: “L’architettura dev’essere provocante. Evocativa. Da quanto tempo non si sente provocato da un edificio della sua città?” Ma Suchi Reddy (Reddymade Design) parla della “quarta dimensione” dell’architettura (il suono) e dell’importanza di creare oasi auditive nella cacofonia della vita metropolitana.
La preoccupazione dell’equità e di ciò che Lefebvre chiama “diritto alla città” emerge a più riprese. “Con tutti i progetti verdeggianti di opere per la sistemazione di Los Angeles, un futuro alternativo appare possibile. Ma, in mancanze di programmi più ampi per risolvere il problema della carenza di abitazioni a prezzo conveniente e della tutela delle diversità di ogni tipo, stiamo forse condannando il nostro progetto a un futuro rovinoso”, osserva Mimi Zeiger in una lettera al sindaco di Los Angeles. In una lettera al “potenziali futuri sindaci di Gerusalemme” Nora Akawi scrive: “I diritti di cittadinanza vanno garantiti a tutti gli abitanti della città, quale che sia il loro luogo di nascita, il luogo da cui fuggono o la lingua che parlano”. Presagendo l’attuale crisi dei rifugiati Ana Dana Beroš (ARCHIsquad) chiede nel 2014 al sindaco di Zagabria: “Saremo ancora costretti ad assistere a una divisione tra cittadini a pieno titolo e cittadini privi di diritti civili? O dobbiamo prepararci tutti ad affrontare un destino da cittadini senza città?”
L’architetto palestinese Suad Amiry, lamentando in occasione di una visita a San Francisco il fatto che la città cisgiordana di Ramallah sia chiusa da un muro, scrive: “Non sarebbe straordinario se potessimo installare una funicolare, una sola funicolare, nelle vie di Ramallah? Non solo farebbe felici i ragazzi di Ramallah, ma contribuirebbe anche a risolvere uno dei numerosi problemi di traffico che stanno soffocando la nostra amata città”. Mitch McEwen (A(n) Office) risponde all’affermazione del sindaco de Blasio di voler fare dell’edilizia residenziale pubblica un vanto della città osservando: “Se New York deve vantarsi di qualcosa, è meglio che si tratti di qualcosa di davvero importante. È meglio che abbia stile e una storia alle spalle.” E prosegue proponendo una combinazione di nuove costruzioni, ristrutturazioni migliorative e trasformazioni dei giardini recintati in parchi pubblici.
Certi architetti si sono spinti a lanciare specifiche idee progettuali, sperando di avvantaggiare le loro cause preferite. Con un esempio memorabile Yvonne Farrell and Shelley McNamara (Grafton Architects) chiedono al sindaco di Dublino di “compiere un piccolo gesto che avrebbe un grande peso”, e cioè aprire al pubblico la corte che sta davanti alla sede del municipio. “Per favore, tolga di mezzo quei paracarri e quelle auto parcheggiate, e restituisca lo spazio alle persone […] Faccia sì che lo spazio sia vissuto come un luogo della vita della città”, scrivono, aggiungendo poi: “Può far sistemare due lunghe, ampie, comode panche di pietra addossate alla facciata, riscaldate da pannelli solari, in modo che siano sempre calde e asciutte. Vi si potrebbe integrare una tettoia mobile per proteggerle dal vento e dalla pioggia, e anche un bagno nascosto e discreto”.
Azra Aksamija
(MIT) invita il sindaco di Sarajevo a unirsi alla campagna del suo gruppo per salvare dalle minacce cui sono sottoposti i musei nazionali, le gallerie d’arte e le biblioteche della Bosnia ed Erzegovina. Sonja Dümpelmann
(Harvard University) difende la tesi di mantenere l’ex aeroporto di Tempelhof, a Berlino, come spazio prevalentemente libero, ovvero “vuoto”, invece che costruirci parchi o palazzi d’appartamenti. E Marisa Yiu (ESKYIU) ribatte alla proposta di limitare il numero crescente dei turisti di Hong Kong con una controproposta consistente nell’aumentare il numero dei percorsi pedonali sopraelevati, controllando in questo modo l’estrema densità.
Ma accanto alle idee pragmatiche compaiono anche posizioni concettuali e polemiche. Daniela Fabricius (Princeton University) propone sarcasticamente di esiliare i milionari e i miliardari di New York in una copia di Manhattan realizzata in qualche altro posto, nell’isola greca di Thassos oppure nella città di Türkmenbaşy, sul Mar Caspio, spiegando: “Ci sarà tanto spazio in più… per i newyorchesi. E forse allora la città ricomincerà ad assomigliare al luogo diverso, vivo dove sono cresciuta”. Greta Hansen (Common Practice) esprime una versione provocatoria del per altro familiare appello alla sostenibilità, chiedendo a de Blasio e a chi la legge fatti e non parole: “Per favore, spendete di più per New York. Aiutateci a produrre oggetti abbastanza buoni da poterli riusare, riproporre, riparare e rivendere, da quelli piccoli (bottiglie) a quelli grandi (edifici)”. E Keller Easterling (Yale University), in una lettera ai sindaci degli Stati Uniti in generale, ribalta la tradizionale identificazione dell’architettura con l’edilizia: “Sapete bene che gli architetti sanno far andare avanti la macchina dell’edilizia, ma noi sappiamo anche come farle fare marcia indietro. Gli architetti sanno come restringere l’ampiezza del territorio eccessivamente costruito”.
Negli interventi degli architetti appaiono frizioni e divergenze che non fanno che sottolineare il valore di Letters to the Mayor come dibattito settoriale e non solo come un modo di ottenere ascolto dai politici. Mentre Dagmar Richter (Pratt Institute) chiede un più coerente controllo del traffico nelle strade di New York per impedire che le auto blocchino le biciclette e le corsie riservate agli autobus, Anna Puigjaner (MAIO) esprime al preoccupazione opposta, quella di un “controllo eccessivo” e di una “iperregolamentazione” dello spazio urbano di Barcellona. Ciò che la infastidisce soprattutto è la rimozione di fontane e panchine dove i senza dimora potevano dormire e lavarsi, con la conseguenza del depauperamento generale dell’arredo urbano e dell’uso libero dello spazio.
Un’affermazione contenuta della lettera dell’architetto Zoka Zola al sindaco di Chicago offre un autoritratto collettivo dell’architetto contemporaneo: “Siamo per natura ottimisti, guardiamo al futuro, pensiamo in modo sistemico e in funzione dello spazio”. A giudicare dalle centinaia di lettere che Storefront ha suscitato in occasione di questa esercitazione d’ambizioni internazionali – di per sé un segno di successo – parrebbe anche corretto affermare che gli architetti sono politici. O per lo meno che molti dei loro obiettivi professionali e artistici sono coerenti con ideali sociali e politici, che hanno colto l’occasione di comunicare ai politici, ai concittadini e ai colleghi. Queste lettere non rappresentano solo un prezioso archivio della coscienza sociale dell’architettura di oggi, ma anche la testimonianza della volontà degli architetti di rivendicare ciò che Eva Franch chiama “il privilegio e la responsabilità di articolare e tradurre le aspirazioni collettive della società, soprattutto in nome di coloro che non sono in grado di sedersi ai tavoli decisionali”.
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