Palladio che non ti aspetti

La mostra “Palladian Design – The Good, the Bad and the Unexpected” al Royal Institute of British Architects è l’occasione per esporre alcuni dei 350 tra schizzi e disegni di Palladio conservati al RIBA.

Ciclicamente, l’architettura rende esplicita la sua innata falsa coscienza: un po’ come autodenuncia dell’incapacità di dialogo con un pubblico ben più ampio rispetto agli addetti ai lavori. Ma, forse ancora di più come presa di coscienza della propria insignificanza sull’opinione pubblica, si rilanciano campagne di sensibilizzazione sull’importanza del pensare architettonico a largo spettro. È questo, ovviamente, un obiettivo naturale per quelle istituzioni che si pongono come ponte tra un’entità tanto sfuggevole come l’architettura e il sentire collettivo.

Nel Regno Unito, una delle principali tra tali istituzioni è il Royal Institute of British Architects che lo scorso 9 settembre ha inaugurato “Palladian Design – The Good, the Bad and the Unexpected”, occasione per esporre al pubblico una selezione dei circa 350 tra schizzi e disegni di Andrea Palladio conservati al RIBA e che costituiscono l’85% di quelli arrivati fino ai nostri giorni.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

La mostra è allestita nella stessa sala in cui, pochi giorni prima, chiudeva quella dedicata a celebrare il ruolo che i campi gioco hanno avuto per l’edilizia abitativa “brutalista” del secondo dopoguerra (“The Brutalist Playground”, 10 giugno–16 agosto 2015). Alle ricostruzioni morbide (gommapiuma al posto di cemento armato) e in scala 1:1 di alcuni spazi di gioco che hanno costituito un fulcro dell’esperienza sociale nelle periferie britanniche, si sostituisce la sobria ed elegante installazione con cui lo studio Caruso St John mette in mostra circa 50 disegni originali dell’architetto veneto, e numerosi lavori successivi ad opera di altri progettisti – da Inigo Jones, John Webb e William Kent fino a OFFICE Kersten Geers, passando per Edwin Lutyens, Aldo Rossi e Oswald Mathias Ungers. Questi – nelle intenzioni dei curatori della mostra, Charles Hind e Vicky Wilson –, manifestano la molteplicità di modi in cui il Palladianesimo si è reincarnato, oscillando tra pura riproduzione iconografica e interpretazione attenta dell’azione iconoclastica dell’opera palladiana.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

L’allestimento di Caruso St John tratta Palladio come un oggetto da maneggiare con cura, nel silenzio di uno spazio capace di annullare le voci chiassose dei bambini che si arrampicavano – distruggendoli instancabilmente – sui piani inclinati e gli scivoli trapiantati per due mesi dalla periferia al centro di Londra. Tuttavia, l’evidente stridore tra le due mostre è solo di superficie e, a una lettura più attenta, emerge un latente filo conduttore che riporta proprio a quel tentativo di sensibilizzazione del pensiero comune all’importanza dell’architettura.

Se i playground brutalisti interpretavano la necessità di uno spirito collettivo nel dilagante mare residenziale metropolitano, il senso ultimo del riproporre Palladio nel 2015 sta nel tentativo di travalicare limiti assodati del fare architettura e che la pongono ancora oggi come fatto per pochi. Per quanto sarebbe ingenuo non accettare che l’architetto veneto, così come molti o quasi tutti i suoi colleghi di allora e quelli più vicini ai nostri tempi, operava in risposta a una committenza facoltosa ben oltre la media, se qualche lezione deve essere imparata, questa è tanto più contenuta in una lettera manoscritta di Palladio che negli innumerevoli portici, timpani e pronai che riempiono gli occhi dei visitatori al RIBA.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

Più che una lettera formale, si tratta di un pezzo di carta in cui ogni centimetro disponibile è occupato da schizzi a matita dove frammenti di piante di edifici, tratti dall’architettura romana, sono accostati a uno studio distributivo per residenze a basso costo. Se un certo romanticismo potrebbe essere ravvisato nella didascalia all’immagine, che presenta un Palladio interessato tanto ai ricchi quanto ai poveri, la giustapposizione sulla stessa superficie di uno schema di residenze popolari, un teatro, un tempio, un palazzo signorile e una chiesa, indubbiamente anticipa uno spazio urbano che, nel sedicesimo secolo, si accingeva a diventare moderno, sollevando la necessità di inserire tra i problemi dell’architetto quello dell’abitare per una crescente popolazione urbana che eccedeva Principi e Signori. Una popolazione che si sarebbe presto ritrovata ad abitare quei luoghi da cui il RIBA ha preso in prestito gli spazi di gioco.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

Più volte, nelle didascalie dei disegni esposti compare il termine “democrazia”, a indicare un desiderio di convogliare il messaggio che l’architettura debba essere in grado di operare a prescindere dal rango sociale cui più direttamente si rivolge, caso per caso. Un ideale democratico che emerge dalle barchesse palladiane, passa per gli annessi utilitari progettati da Inigo Jones – presentato come primo portatore sano di Palladianesimo ai britannici –, per sfociare infine nella stessa mostra del RIBA.

I curatori, infatti, cercano di tenere insieme più fili, più modi di interpretare la rilevanza di Palladio e di chiedersi perché, oggi, parlarne ancora. È indubitabile che sulle loro spalle prema una tradizione specificamente britannica, che si riscontra espressamente nell’intitolare una delle sezioni della mostra The rise of Anglo-Palladianism (“L’emergere dell’anglo-palladianesimo”), un eco di quel Vitruvius Britannicus con cui, nel 1717, Colen Campbell celebrava i risultati di un’architettura britannica che aveva, tra le altre cose, imparato la lezione dell’architetto veneto (pur preferendo rimandare a Roma piuttosto che a Vicenza le proprie origini). Si tratta di una tradizione che si è costruita, da un lato, sulle letture formali-matematiche dell’opera di Palladio (la linea Wittkower-Rowe-Eisenman) e, dall’altro, sulla critica a una riduzione ad abito nero, sempre valido, che il palladianesimo in quanto stile ha subito nel tempo.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

La parola “stile” è sicuramente il principale fantasma che aleggia per tutta la mostra; un termine che l’epurazione modernista ci ha insegnato a guardare sempre con massima diffidenza, se non a rifuggire a piè pari. Il termine emerge varie volte nella mostra, a testimoniare al contempo l’imbarazzo nel menzionarlo e il desiderio di esorcizzarlo. Astutamente, l’eclettismo permette di non prendere un’unica posizione e, alla fine, il visitatore è chiamato a fare propria la sintesi di una rassegna di posizioni su Palladio. Ai più, inevitabilmente, rimarrà impressa la conferma di un proprio preconcetto: Palladio come quell’abito nero, sempre valido, anche oggi, soprattutto se come status symbol di qualche nuovo ricco (un viaggio per le periferie di piccoli comuni periferici può bastare come verifica).

Altri – chi ha il tempo di rimanere due ore a vedere una mostra ospitata in una singola stanza e, magari, leggere il catalogo che ha comprato all’uscita – rimarranno nel dubbio. Il dubbio di una cultura, quella britannica, che ancora si domanda se e come sia davvero avvenuta l’appropriazione e trasformazione in identità locale dei principi architettonici nell’era dell’umanesimo – versione Palladio. Il dubbio di chiedersi se, davvero, il XXI secolo – come affermato nel catalogo – ha iniziato una lettura più “astratta” di Palladio, e se e come di questa facciano parte lavori tanto diversi quanto quelli di Caruso St. John (paragonati a Palladio, col metodo della duplice proiezione tanto caro, tra gli altri, a uno dei massimi studiosi britannici, per quanto importati, di Palladio: Rudolf Wittkower) e di OFFICE Kersten Geers.

Vista della mostra “Palladian Design: The Good, the Bad and the Unexpected”, al RIBA di Londra

C’è tanto, forse troppo in mostra. E non ci potrebbe essere migliore supporto del minimale allestimento fatto di tavoli di legno e campiture di colore sulle pareti (ispirate, si legge sempre nel catalogo, agli affreschi di Villa Caldogno) per contenere tante voci contrastanti. Quasi a ricordare quelle che, pochi giorni prima, abitavano i playground brutalisti di gommapiuma.

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