Haus am Waldsee, casa per la cultura e l’arte dal 1946, ospita la mostra “Haus-Rucker-Co: Architektur-Utopie Reloaded”. La residenza privata costruita a Berlino tra il 1922 e il 1923 al numero 30 di Argentinische Allee, ora sede del contemporaneo e autorevole museo, si fa luogo di memoria per la rivoluzione architettonica in atto dalla fine degli anni Sessanta.
Haus-Rucker-co: architettura e utopia
A Berlino una mostra ripercorre il lavoro del gruppo austriaco fondato nel 1967, rintracciabile ancora oggi nelle visioni di utopia a sfondo sociale di molti architetti e artisti.
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- Nicola Violano
- 17 dicembre 2014
- Berlino
Nonostante la tranquillità e la discrezione della zona di Zehlendorf, dove la linea metropolitana U3 trova il suo termine, l’esposizione curata dallo stesso Günter Zamp Kelp, da Katja Blomberg e Ludwig Engel, si propone di raccontare la rumorosa e reattiva circostanza del gruppo viennese, Haus-Rucker-Co.
Temporanea, performativa, sottile, ma potente, irrompe tra gli scenari inquinati e sovraffollati della civiltà industrializzata, con lo scopo di dare strumenti nuovi all’umanità responsabile dell’evidente declino del mondo. In quegli anni, iniziava a farsi largo la presa di coscienza sulla salvaguardia dell’ambiente e, in quest’ottica, alcune utopie sembrano realizzarsi. Lo spazio perde definizioni a discapito dei piani cartesiani, l’architettura si fa di plastica e, non avendo più bisogno di cemento, modifica il proprio peso per adattarsi alle sinuosità del corpo umano nello spazio e in tempi diversi. La progettazione rigenera le sue figure per collocare al centro degli esperimenti sulla forma la “membrana”, nuovo spessore del costruire che concorre a mettere in crisi i valori fondativi dei codici morali dell’abitare quotidiano.
I primi tentativi di sovversione dei paradigmi urbani si concretizzarono a Vienna, dove nel 1967, Günter Kelp Zamp e Laurids Ortner, completato il loro percorso di studi in architettura, cominciarono a lavorare a vari progetti in collaborazione con il pittore Klaus Pinter e, successivamente, anche con Carol Michaels e Manfred Ortner, sotto il nome di Haus-Rucker-Co. Nell’appellativo era già riportata letteralmente l’azione del muovere e soprattutto dell’andare avanti, con l’intento di lasciare indietro quanto si era costruito per occuparsi degli interstizi, dei luoghi non ancora assuefatti a nessun tipo di regola.
Gli esempi mettevano in scena paradossali espedienti cinematografici che specificavano in modo più ampio quale futuro si stesse cercando, Ballon für Zwei (Pallone per due, 1967) debutta, infatti, dalla finestra di un appartamento viennese datato prima della Prima guerra mondiale. Una sfera rigonfia d’aria dava la possibilità di sedersi sul vuoto, rivoluzionando, con due posti al suo interno e sospesa da un edificio, la relazione tra lo spazio privato e quello pubblico, ora in reciproco scambio, continuo e non collaudato.
I mezzi, con i quali si dà spazio ai nuovi significati, si assumono la responsabilità di doversi allontanare categoricamente da ciò che è ordinario, mescolando i colori e utilizzando generatori d’aria, rendendo le proposte evidentemente disgiunte da un presente, a cui non appartengono. La città comincia a familiarizzare con un’estetica straniante e incoerente con se stessa, perché fatta di storie simultanee, propria di una sconfinata e inarrestabile diffusione policentrica già in opera, che impone la revisione dei rapporti tra natura e artificio, tra artificio e artificio, dunque, tra uomo e uomo.
La casa dell’uomo non può più rimanere la stessa e dovrà riadattarsi alla carenza degli spazi che vanno diminuendo per uno stato di sovraffollamento che in alcuni luoghi già persiste come problematica incontrollabile. Scrive Kant: “[…] la natura ci impone di considerare l’ospitalità come il precetto supremo che tutti prima o poi dobbiamo abbracciare in egual misura così come dobbiamo cercare una soluzione alla lunga catena di prove e inesattezze, alle catastrofi che i nostri errori hanno provocato, alle rovine che queste catastrofi si sono lasciate dietro […]”.
L’attenzione per l’habitat è nodale per i concetti espressi in tutta l’opera del gruppo HRC, difatti il loro spazio definisce sempre dei limiti per poter esistere, condizione essenziale per l’architettura pneumatica, progettata dal gruppo viennese, o di una qualsiasi scenografia, che si mostra su un fronte per nascondere un retro. Lo studio, appena avviato a Vienna, trasferisce la sede delle attività prima a Düsseldorf e poi a New York dove, congruentemente alla ricerca svolta sugli Urban Toys e la loro incombenza sul territorio, esibisce l’idea secondo cui la progettazione non può prevedersi se non con caratteri inscindibili dalla volontà del pubblico che poi fruisce quell’architettura e, quindi, deve poter esplorare e godere dei processi di trasformazione tramite l’interazione. Una grossa torta, ritratto della metropoli newyorchese con il suo reticolo di isolati, celebrava la partecipazione aperta distaccandosi dalle istituzioni, come quella del museo, e riferendosi alla necessità di cambiare i livelli di percezione.
Le prospettive per il futuro di altri paesaggi culturali, mostrate alla Haus am Waldsee, approfondiscono gli anni esposti, dal 1967 al 1977, nelle sezioni principali in cui è possibile narrare questo racconto d’architettura radicale: il programma di espansione della mente, l’architettura pneumatica e gli interventi nello spazio della città.
Dalle strutture “allucinogene” derivano i progetti mostrati nei documenti e nei prototipi originali; Mind-Expander 2, secondo di due modelli previsti dal 1967 al 1969 in occasione di un concorso internazionale, è prova dell’arricchimento delle esperienze spaziali rispetto a quelle esercitate da una coscienza che opera ordinariamente. Gli abiti in plastica con stampe, come Electric Skin 1 (1968), o le strutture pneumatiche, Connexion Skin (1967), convivono all’interno di un programma sperimentale per la distorsione percettiva condivisa con altri individui e la proiezione del documentario Yellow Heart (1968) ne ritrae l’utilizzo, girando le scene su un set ricostruito nella sede della polizia di Vienna.
La città, come organismo vivente e mutevole, si modifica a ogni intervento riorganizzando i tessuti e i flussi che interagiscono con le figure urbane: evitandole, invadendole, attraversandole. I progetti dello studio HRC proiettano alcuni dei dispositivi alla scala della città prefigurandone gli effetti con i canonici metodi di rappresentazione delle sezioni o delle piante, intersecandole con modelli e prototipi utili a restituire la proporzione tridimensionale tra gli spazi. I materiali da costruzione sono visibili nei loro giunti e creano strutture reticolari più adatte ad una quinta di un teatro che a un edificio tradizionalmente concepito, elevandosi a punto di vista diversificato negli esercizi di fruizione ma duttile in base all’ambiente di collocazione: Rahmenbau (Cornice, 1977) tra i paesaggi di Kassel, Sonnenuntergang am Matterhorn (Tramonto sul Cervino, 1974) riprodotto come scena teatrale per l’allestimento di una mostra, Big Piano (1972) al Central Park di New York in cui è possibile raggiungere una nuvola salendo una scala, così come accadeva per Mind-Expander, ma a dimensioni urbane.
I dettagli delle soluzioni citate vennero elaborati in un clima intimorito da un ambiente riscoperto fragile e che per questo comincia ad allarmare i suoi abitanti riguardo alle azioni nocive che contraddistinguono le attività, industriali e residenziali al contempo. In uno scenario costituito da immagini paurose, quali cataclismi e contaminazioni di ogni genere, l’uomo ripone tutta la sua fede nella tecnologia, nuova religione riparatrice e ottimista, ristrutturando la sua civiltà che non può fare a meno delle sue abitudini, come riflesso nella videoinstallazione di Hussein Chalayan, Place to Passage (2003), autore congiunto all’esposizione.
La contemporaneità non ha ancora abbandonato l’instabilità affrontata dall’architettura radicale degli anni Sessanta e Settanta, per questo condivide le speranze maturate in quel tempo e le traduce in elaborazioni quanto più realistiche e attuabili per sanare l’indebolimento dell’equilibrio globale. Il gruppo Haus-Rucker-Co vede la sua scissione definitiva nel 1992, ma il riverbero delle loro opere è rintracciabile nei profili di molti altri architetti, artisti, autori che educano il proprio lavoro secondo visioni di utopia a sfondo sociale. Orbit (2013) di Tomás Saraceno, presente in una delle sale al fianco di Giant Billiard (1970), plasticizza lo spazio al fine di liberare l’uomo dai vincoli di gravità; il compito dell’opera d’arte è rifondare un’apertura del mondo, richiamando Martin Heidegger, ma è anche il sogno dell’uomo che da sempre cerca di superarsi in una lotta per l’evoluzione.
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fino al 22 febbraio 2015
Haus-Rucker-Co: Architectural Utopia Reloaded
Haus am Waldsee, Berlino