Al Watari Museum di Tokyo la mostra dedicata ad Arata Isozaki trasmette l’immagine di un letterato postumanista: un manierista dallo spirito critico che si riflette nella teoria come nella prassi.
Questa piccola ma esauriente mostra al Museo Watari di Tokyo è dedicata nel caso specifico all’approccio performativo dell’architetto Arata Isozaki allo spazio come tessuto contingente, che si legge, si scrive, si vive e infine si crea nella dissonanza, nel dialogo e, talvolta, nel silenzio.
Un ironico manifesto di Hans Hollein, realizzato in occasione della mostra MAN transFORMS del 1976 e collocato come preludio all’ingresso dell’esposizione, mostra un Isozaki senza pelle, sezionato in una forma di anatomia comparativa in cui organi vitali e muscoli vengono attribuiti a personaggi simbolici, come Michelangelo e Giulio Romano (il cuore) e Marilyn Monroe (le natiche). La mostra trasmette l’immagine di un letterato postumanista: un manierista il cui spirito ambiguamente critico si riflette nella teoria come nella prassi.
Isozaki nel corso della sua carriera è riuscito non solo a collegare linguaggi, metodi e ambienti artistici differenti, ma anche a esaltare la nostra sensibilità per le specificità di tempo e di luogo, sottolineando i concetti trasversali dell’umanesimo a scapito delle contrapposizioni binarie, pur continuando a fare riferimento, come sfondo, ai costrutti omogeneizzanti di “Oriente” e “Occidente”. In questo senso la mostra seleziona una gamma di casi che Isozaki ha già toccato in appassionati commenti sul concetto critico di “giapponesità dell’architettura” (2011), in relazione alla sua tensione alla rappresentazione oltre che alla crisi della rappresentazione stessa.
Benché il titolo della mostra – “12x5=60. Thoughts Beyond Architecture” – richiami la rigida logica di un’equazione matematica oppure la griglia di una matrice, la rigidezza sta soprattutto altrove: nel soffitto di calcestruzzo di Mario Botta per i cinque piani dello spazio espositivo triangolare del Watari-um, collocato nel 1990 tra il caratteristico, brutalista e paramonastico “palazzo a torre” di Takamitsu Azuma (1967) e la stazione di Gaienmae.
Partendo dalla struttura concettuale dei progetti alternativi di Isozaki che riguardano motivi ricorrenti nella sua architettura, essi possono essere suddivisi in 12 riflessioni al di là dell’architettura, 12 opere in collaborazione, 12 luoghi da vivere, 12 viaggi nella sezione orientale e 12 viaggi nella sezione occidentale. Questi diagrammi concettuali sono riorganizzati e poi rizomaticamente distribuiti su quattro piani: un percorso accidentato che sintetizza spazi effimeri attraverso manifesti, disegni a matita, schizzi e annotazioni concettuali, modelli, immagini in movimento, insieme con fotografie, pubblicazioni e riproduzioni di attrezzi scenici: il riassunto di quasi sessant’anni di professione. Le ‘opere’ di Isozaki che riguardano il progetto dell’ambiente e l’esperienza spaziale si affastellano in agglomerati tematici grezzi, restii a qualunque sequenza narrativa.
Il primo piano è comunque dedicato a uno dei primissimi interessi dell’architetto: l’esperienza del non costruito come spazio interstiziale di relazione, evocato da differenti meccanismi sensoriali e dal comportamento sociale ispirato alla ritualità. Al di là di ogni riluttanza a conformarsi ad assi cronologici, un riferimento iniziale al suo edificio giovanile – la Casa bianca, spazio destinato a studio concepito per amici come Masunobu Yoshimura e l’artista neodada Akasegawa Genpei, nella circoscrizione di Shinjuku di Tokyo (oggi è un caffè) – colloca con evidenza il punto di partenza nell’attenzione performativa dell’architetto. Nella mostra questa scelta collega i motivi della luce e dell’ombra in una serie di manifesti che conducono a un gruppo di progetti riguardanti differenti concezioni dell’ambiente acustico, in uno snodo di realtà materiale e immateriale che riguarda o manipola la percezione corporea.
I progetti, esposti in vetrine quadrate che arrivano alla cintola, progettate dal laboratorio d’architettura Teppei Fujiwara, sono distribuiti per tutto lo spazio espositivo, e danno conto di una complessa rete produttiva, evidente nelle collaborazioni con il regista cinematografico Hiroshi Teshigahara e l’artista Tomio Miki (vedi Face of Another, 1966), e con il videoartista Toshio Matsumoto (Ki-Breathing, 1980), recentemente riattivata in un progetto con Anish Kapoor e il Festival di Lucerna (Ark Nova, 2013): una sala da concerto gonfiabile dai colori vellutati e dalla superficie ritorta e continua come una ciambella, in tournée nella zona di Tohoku, ancora una volta colpita dal disastro quest’autunno, raffigurata in modelli e fotografie.
Le analoghe iterazioni da parte dell’architetto della forma delle gambe di Marilyn Monroe – Marilyn on the Line (1965) e Angel Cage (1976) – si rifanno alla più tarda adozione dello strumento informatico allo scopo di reiterare la forma nel processo progettuale e nel relativo nesso tra architettura e tecnologia, sezionando l’esperienza vissuta. Ma è la ricostruzione di due soluzioni materiali a mediare con la consapevolezza dell’architetto e con la ricerca di proposte alternative, innescando comportamenti intellettuali e fisici: in primo luogo Mondrian Teahouse (1978), installazione di due materassi tatami rialzati tra da due composizioni alla Mondriaan distorte su sottili pannelli di legno appesi al soffitto, che invitano i visitatori a concedersi una pausa contemplativa. L’installazione riprende un dispositivo che proviene dalla mostra MA. Space-Time in Japan, a cura di Isozaki, che ha girato tutto il mondo.
La sua attività di curatore è documentata in disegni concettuali pressoché inediti, su carta da lettere con il marchio del suo studio: uno dei numerosi tesori d’archivio della mostra. L’artificiosa Tree House (1982) d’altro canto è raggiungibile solo tramite una stretta scala che costringe il visitatore ad abbandonare ogni fardello per trovare un equilibrio e vivere questo spazio intimo concepito per la riflessione su se stessi. La semplice cella da eremita di legno si trova su una collina coperta di alberi a Karuizawa. Trasferita nella caotica Tokyo istituisce una tensione dialettica tra sito e non-sito. Correttamente il comunicato stampa la descrive come una “voliera” contrapposta alle nostre abitazioni urbane, che Isozaki considera decisamente delle gabbie da uccellini.
Salendo a spirale intorno a questo studiolo il livello espositivo superiore punta ancora sul tema della gabbia, illustrato nel progetto Palladium (1985), una discoteca commissionata da Steve Rubell e Ian Schrager come punto di incontro e di esibizione per la scena dell’arte e dei locali della New York anni Ottanta. Allo stesso piano si osserva anche un progetto grafico di Kohei Sugiura. Le sue “illu-stereo-visioni” tridimensionali raffigurano piante di case scelte da Isozaki, come la Endless House di Frederick Kiesler per dodici copertine del mensile Toshi Jutaku (”abitazioni di città”). Queste superfici di scrittura sono esposte lungo una biblioteca di scritti dello stesso Isozaki con la documentazione delle conferenze teoriche Any, tenute tra il 1991 e il 2003, che riunirono uno scelto gruppo di architetti tra i quali attori di primo piano come Peter Eisenman e Ignasi de Sola-Morales. Più in là la passeggiata lungo l’universo di Isozaki si conclude, ovvero si amplia, nello spazio espositivo in cima all’edificio, dove i suoi viaggi, l’espressione grafica di paesaggi veri e di fantasia dei suoi taccuini sfocia in analisi morfologiche, vedute pittoriche, labirinti e registrazioni di ruderi di interesse culturale ben al di là della limitante nozione di griglia.
La mostra, mentre spazza via dall’architettura la componente statica rappresentata dagli edifici e dalla materia, mette in rilievo la prassi orientata al processo. E tuttavia, ovviamente, una matrice rimane pur sempre un sistema, anche se tenta di criticarlo in quanto tale dall’interno. Ciò nondimeno la mostra riflette, valutandone il peso, sull’ambiguità dello spazio in un contesto che mira, nonostante – o forse proprio per questo – la sua intrinseca contraddittoria complessità, a distinguere tra disposizione, interstizi produttivi e spettacolo omologante.