Alla Biennale di Venezia di quest’anno, nel padiglione britannico, c’è una stupefacente quantità di Cliff Richard. L’immarcescibile abbronzatura del cantante è presente quasi in ogni sala della villa neoclassica e le sue fattezze compaiono su un multiforme armamentario pop che ha costantemente come sfondo architettonico le icone del modernismo britannico postbellico.
A Clockwork Jerusalem
Il padiglione curato da FAT e Crimson è un’analisi delle origini della modernità britannica: dalla poesia Jerusalem di William Blake alle New Town come Thamesmead scelta da Kubrick per Arancia meccanica.
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- Catharine Rossi
- 18 giugno 2014
- Venezia
Richards è uno dei protagonisti più inconsueti di “A Clockwork Jerusalem” (“Gerusalemme meccanica”), il contributo britannico ad “Absorbing Modernity: 1014-2014”, il tema proposto ai padiglioni nazionali da Rem Koolhaas per la Biennale di quest’anno. Come nel caso dei suoi vicini di altri Paesi, risponde al duplice scopo di Koolhaas: studiare l’architettura del passato invece che esporne il presente, e mettere l’accento più sull’architettura che sugli architetti.
Sotto la direzione del British Council la mostra è stata realizzata in collaborazione con Crimson Architectural Historians, il collettivo di ricerca olandese fondato negli anni Novanta, e con FAT, lo studio londinese fondato nello stesso decennio da Sam Jacob, Sean Griffiths e Charles Holland. “A Clockwork Jerusalem” è il canto del cigno di FAT, dopo l’annuncio, alla fine dello scorso anno, che lo studio si sarebbe sciolto.
L’impostazione critica è sintetizzata nel titolo della mostra. Si tratta di un’analisi delle origini della modernità britannica, a partire dalla poesia settecentesca Jerusalem di William Blake e da come si è giunti al modernismo della Gran Bretagna postbellica: alle New Town come Thamesmead, il suburbio londinese scelto da Stanley Kubrick per fare da sfondo ad Arancia meccanica, la sua versione del 1971 del romanzo di Anthony Burgess del 1962. Il risultato è una storia tutta britannica, piena del sarcasmo e dell’eclettismo tipici di FAT, gruppo noto per il suo postmoderno atteggiamento ironico.
Tra i temi che spiccano nella mostra c’è la continua presenza della campagna nel Modernismo britannico. Accanto alla scalinata esterna ci sono due mucche di cemento, prese a prestito da Milton Keynes, l’ultima delle New Town britanniche. Sotto il portico c’è un cavallo bianco fatto di LED, versione digitale delle incisioni neolitiche sparse in tutto il paesaggio rurale inglese, qui definito come una forma di “pittoresco elettrico”: uno dei tanti neologismi che i curatori si sono inventati per la mostra.
Questa combinazione di pastorale e di urbano prosegue all’interno: nella sala centrale si viene accolti da un imponente cono di terra, amalgama di molteplici episodi architettonici, dagli antichi tumuli funerari alla demolizione delle baraccopoli. Intorno una panoramica mescola visioni e visionari che popolano il resto della mostra. C’è Cliff, e anche Blake, accanto a ruderi, a complessi residenziali georgiani e a palazzi a torre brutalisti.
Un repertorio iconografico che si ripete nelle rimanenti sale, dove continua l’uso di neologismi, di scarti storici e di salti dalla cultura d’élite alla cultura pop, nell’intento di raccontare la storia delle origini e degli esiti del Modernismo britannico. Le prime due sale – L’utopia delle rovine e Futurismo storicista – offrono alcuni dei pezzi più accattivanti della mostra: dall’interessante illustrazione del 1789 di Joseph Gandy che raffigura la Rotonda della Banca d’Inghilterra di John Soane, rappresentata come un rudere ancor prima di essere costruita, alla secentesca dichiarazione di Inigo Jones sulla “volgarità” di Stonehenge. Qui, come in tutta la mostra, il passato è una presenza continua. Un monito che il Modernismo non è saltato fuori dal nulla ma è stato anzi l’ultimo capitolo di una lunga storia di pensiero visionario: la forma che ha assunto nel XX secolo dipende da questo lungo cammino e dalle circostanze locali.
Sotto l’ombrello del “Barocco dello Stato assistenziale” la sala posteriore mostra un trio di progetti residenziali – Hulme, Thamesmead e Cumbernauld – presentati come l’acme delle megastrutture britanniche del dopoguerra. Sospesi a mezz’aria i modelli monocromi sembrano tante astronavi di Guerre stellari. Non è una similitudine casuale, visto l’utopismo fantascientifico che rappresentavano. Senza che ci sia da sorprendersi troppo, una rappresentazione eroica che si contrappone a certi aspetti della realtà di questi progetti: Hulme fu demolito nel 1994, nel contesto del fallimento dell’architettura modernista britannica che segnava gran parte della sua immagine pubblica.
E tuttavia c’è anche motivo di discutere questa concezione generale del Modernismo britannico. Come si scopre in “Pittoresco cementizio”, benché Thamesmead oggi abbia cattiva fama, negli anni Sessanta venne scelto da Kubrick per le sue connotazioni positive. Questo dislivello tra mito e realtà dell’architettura modernista britannica è importante per riflettere sulla sua condizione odierna: gran parte delle sue costruzioni si trova in stato precario e richiede un aiuto pubblico per conservare questa importante parte del passato architettonico britannico.
In conclusione “A Clockwork Jerusalem” non è solo finalizzata alla rivalutazione del passato. Come la poesia di Blake è un inno a una “nuova Gerusalemme”, un appello ad architetti e urbanisti perché affrontino oggi il tema del costruire con lo stesso zelo adottato prima di loro dal creatore della Garden City Ebenezer Howard e da visionari pop come Cedric Price e gli Archigram. Figure che hanno contribuito a dar forma al dibattito e alla diffusione del Modernismo nella Gran Bretagna di ieri: è sperabile che la mostra faccia lo stesso oggi.
© riproduzione riservata
Gran Bretagna
A Clockwork Jerusalem
Commissario: Vicky Richardson
Curatori: FAT Architecture and Crimson Architectural Historians
Sede: Padiglione ai Giardini
Fino al 23 novembre 2014
14. Biennale di Architettura
Fundamentals
Giardini, Venezia