Questo articolo è stato pubblicato su Domus 969, maggio 2013
I due progetti che presentiamo in queste pagine si situano in due situazioni ambientali differenti: la zona industriale di Kurashiki e l’area metropolitana di Yokohama. Il primo è un esempio della tendenza alla conversione degli edifici industriali, di cui la città sull’Isola di Honshu è l’apripista; il secondo dimostra come l’architettura possa salvare i luoghi e, similmente all’economia illegale, moltiplicare i profitti. Se per Yokohama, seconda solo a Tokyo per popolazione, si tratta di una rifunzionalizzazione ambientale, per Kurashiki, città pilota nella conservazione e nel recupero di costruzioni storiche, siamo di fronte alla conversione di un fabbricato industriale moderno in un museo, a opera dello studio TNA.
Architettura reincarnata
Per quanto le parole riciclo e riuso facciano parte del DNA della cultura giapponese, l’ascesa di un consumismo sfrenato a partire dal dopoguerra le aveva confinate nel dimenticatoio. In tempi più recenti, diversi interventi architettonici e urbani nipponici dimostrano un’inversione di tendenza.
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- Salvator-John A. Liotta
- 26 giugno 2013
- Kurashiki, Yokohama
Koganecho a Yokohama: l’architettura sotto la sopraelevata
Bombardato dai B-29 americani durante la Seconda guerra mondiale, nel primo dopoguerra il distretto di Koganecho ha visto proliferare sotto il tracciato ferroviario mercato nero, droga e prostituzione, tanto che, oltre a essere cantato da William S. Burroughs, nel 1963 è stato utilizzato come set da Akira Kurosawa per il suo Anatomia di un rapimento. Fino al 2005, qui sorgeva un quartiere a luci rosse con oltre un centinaio di chon-no-ma (case di prostituzione con una sola donna) e scorrevano fiumi di alcol. Poi, i ripetuti raid da parte della polizia del Governo locale hanno ripulito l’area, ma hanno anche prodotto una pesante stagnazione economica. Locali, negozi e botteghe hanno chiuso uno dopo l’altro, creando un vuoto materiale, ma aprendo alla possibilità per gli abitanti della zona d’immaginare un altro destino per se stessi e per Koganecho.
“L’unica soluzione che abbiamo è l’arte” [1], dice Shingo Yamano, direttore dell’organizzazione no profit Koganecho Area Management Center che, insieme con la città di Yokohama e con le ferrovie Keikyu, ha dato vita a un progetto di recupero radicale dell’area sotto la via ferrata sopraelevata. Fin dal 2008, la ONG ha prodotto eventi per offrire una possibilità d’incontro fra artisti e residenti: sono state istituite borse per residenze di artisti nazionali e stranieri interessati a trascorrere un periodo di lavoro negli atelier messi a disposizione; sono state promosse attività per bambini ed è stata sollecitata la partecipazione delle scuole; infine, sono stati ideati workshop per mettere in comunicazione tutti gli attori coinvolti in quello che può essere assimilato a un processo continuativo d’interessamento alle problematiche che attraversano e scuotono il mondo dell’arte contemporanea. Dopo queste iniziative, sono stati trovati i fondi per costruire un centro dove ospitare tutti i programmi.
Il piano generale dell’intervento si compone di cinque progetti mirati a ridefinire le zone abbandonate, reinventando una trama spaziale che tiene conto della scala, del contesto, dei materiali utilizzati e delle strutture esistenti. Gli studi Contemporaries, Studio 2A, Workstation, Koizumi Atelier e Nishikura Architectural Design Office hanno rispettivamente disegnato una galleria d’arte, un caffè, un atelier per artisti, uno spazio d’incontro e una piazza all’aperto con sedute. Si tratta di progetti che mostrano come sia possibile fare molto con poco, riducendo le spese all’essenziale.
Le realizzazioni coprono un segmento di circa 100 m sotto la linea ferrata. Tutti gli interventi hanno cercato di mediare la scala dell’opera d’ingegneria civile con quella più intima e confortevole del disegno d’interni. Gli spazi hanno un’atmosfera molto rilassata, ottenuta attraverso la creazione di volumi essenziali, senza nessuna ricerca formale eccessiva. I progetti sono nati codificando il paesaggio informale dell’area di Koganecho e hanno dato vita a un’architettura sofisticata ma semplice, ritmata da pareti sottili, inserite tra gli archi della sopraelevata, o dalle spesse colonne esistenti, che sorreggono il piano dei treni. I materiali scelti—legno, vetro e cemento—comunicano un’impressione di ospitalità.
Con il sistema sociale ed economico giapponese in crisi di maturità e in cerca di nuove direttrici di sviluppo, il progetto di Yokohama prende spunto da un assunto elementare: la necessità di ridisegnare i rapporti interpersonali, di far incontrare artisti di fuori e gente del luogo per immaginare un altro futuro. Sono stati resi attraenti luoghi che hanno un alto potenziale creativo—gli spazi sotto i ponti—ma che, di fatto, sono considerati scarti della modernità, spesso caratterizzati da incuria e trascuratezza.
I responsabili della ong non accusano di nessuna barbarie la società moderna, anzi sottolineano che trovano questo momento di transizione gravido di potenzialità; non attaccano nemmeno la politica attuale del Governo giapponese che, seppure nel marzo 2011—dopo tsunami e terremoto—sia stato sfiorato il disastro nucleare, continua a non affrontare con decisione l’idea di un futuro sostenibile. Gli operatori della ong sanno bene che se non realizzano qualcosa in prima persona nessuno lo farà al posto loro. A oggi, hanno avuto ragione nella determinazione a perseguire gli scopi che si sono prefissati, tanto che il lavoro sotto la sopraelevata è stato selezionato come progetto pilota per altri interventi di recupero nell’intera Prefettura.
Il “sistema Kurashiki” e lo studio TNA
Durante il periodo Edo (1603-1868), Kurashiki si è gradualmente sviluppata in una città-porto fluviale ed è diventata un grande centro di coltivazione e distribuzione del riso. I canali storici sono stati preservati, come anche i magazzini dai caratteristici muri bianchi e dalle tegole nere: erano, infatti, i soli edifici (assieme ai castelli) a essere costruiti in pietra, e non in legno, per questioni di sicurezza. Negli anni Sessanta, quando i centri storici giapponesi venivano rasi al suolo e rimpiazzati da edifici moderni di dubbia qualità estetica, un gruppo di cittadini di Kurashiki, coadiuvato dall’amministrazione municipale, redasse un piano di preservazione e riconversione di intere aree d’interesse storico. Il progetto ebbe talmente successo che si parlò del “sistema Kurashiki”. Nel 1991, a completamento di un percorso di trasformazione, la città si piazzò prima nella League of Historical Site Tourist Attractions con 4 milioni e mezzo di visitatori, dimostrando che si può produrre economia attraverso la riconversione del settore industriale in sistema culturale [2].
Il progetto dei tna si situa nel solco della storia di recupero e conversione già presente nel dna di Kurashiki, ma lo aggiorna con un’opera di architettura moderna che espande le opzioni progettuali.
Il museo Kamoi—nato per conservare ed esporre la produzione dell’azienda omonima, inizialmente specializzata in carta moschicida e, successivamente, in nastri adesivi di carta di riso—occupa una struttura a due piani di un fabbricato all’interno di un’area industriale ancora attiva. Sorge negli spazi un tempo utilizzati per miscelare le paste collanti adoperate nel processo manifatturiero. L’edificio ha un impianto rettangolare molto semplice e ben definito: un piano terra trasparente e aperto verso il paesaggio esterno; un piano superiore con pareti cieche e un’unica finestra a nastro lungo il bordo alto per dare luce all’interno; infine, una scala che connette i due livelli.
I TNA operano un recupero misurato e minimale, smantellando i tamponamenti del fabbricato preesistente e mantenendo della struttura originaria soltanto i pilastri di cemento armato. Rifanno il tetto, poggiandolo su otto esili colonne di ferro che attraversano la soletta, passando per delle aperture quadrate poste a distanza regolare—aperture già presenti nel solaio del primo piano e mantenute intenzionalmente.
Al piano terra—un ambiente unico—, i vetri trasparenti pongono esterno e interno in continuità visiva. Una Mini Cooper ricoperta dall’adesivo prodotto dalla Kamoi e un macchinario d’epoca trovano spazio fra sedie e tavoli in legno all’interno di una sala multiuso, utilizzata sia per incontri e conferenze, sia per il pranzo comune degli impiegati. Al secondo piano, un allestimento minimale racconta la storia della Kamoi attraverso la grafica aziendale d’antan e oggetti vari: una collezione preziosa, dato che i prodotti dell’azienda giapponese sono talmente raffinati da essere venduti negli shop dei musei di tutto il mondo.
Ieri, oggi, domani
Dopo i disastri naturali del marzo 2011, la società giapponese—un sistema economico e sociale avanzato, ma in crisi—sta navigando verso un orizzonte non ben definito, grazie al quale si aprono delle possibilità—soprattutto per l’architettura—per valutare nuove opzioni e strategie che non hanno timore di guardare alla ricchezza della tradizione costruttiva locale. Il riciclo e il riuso erano entrambi presenti nell’architettura giapponese: basti pensare al sashimono, una tecnica di lavorazione del legno, adoperata dai carpentieri e dagli artigiani del periodo Edo. Dovendo far fronte alla penuria di materia prima, essi idearono un sistema costruttivo a incastri per produrre il mobilio delle abitazioni dei samurai più facoltosi. Una volta che i mobili venivano dismessi, il legno veniva smontato e riutilizzato per altri scopi. Tramandato di generazione in generazione, il legno transitava di forma in forma passando così a nuova vita, rinnovando il credo giapponese per il quale gli oggetti hanno un’anima capace di reincarnarsi. Con l’ascesa economica del dopoguerra, che ha visto la potenza asiatica diventare quasi la nazione numero uno al mondo, il Giappone ha abbracciato senza riserve una cultura di sfrenato consumismo, che ha decretato la secondarietà di certe sane pratiche e tradizioni costruttive.
Oggi, una parte dei progettisti giapponesi sta provando a produrre un’architettura più appropriata al nostro tempo, e i lavori qui presentati sono solo un esempio della capacità di questa terra di adattarsi alle circostanze (economiche e naturali) con la stessa forza, dignità e flessibilità che ha il bambù quando passa la piena. Non si tratta solamente di progetti di recupero che mirano a essere eticamente sostenibili o portatori di socialità; al contrario, si tratta di lavori che mirano ad aprire dibattiti e a polemizzare con lo stato delle cose come solo i giapponesi sanno fare, attraverso una provocazione gentile e silenziosa, esempio e stimolo a fare meglio. Non è un caso che in Giappone la storia non venga fatta attraverso rivoluzioni violente e scontri fra generazioni, ma grazie a integrazioni generazionali e rispetto dei valori esistenti per raggiungere un nuovo equilibrio.
I due interventi di Kurashiki e Yokohama mostrano come sia possibile recuperare sia ambienti sia edifici, integrandoli alle necessità contemporanee, per produrre un’architettura di qualità capace di incidere positivamente sulla produzione di un nuovo futuro. Salvator-John A. Liotta, Architetto e Senior Researcher, Tokyo University
Note:
1. Jon Mitchell, Koganecho transformed: from sleaze to teas, in The Japan Times, 24 marzo 2011
2. André Sorensen, The Making of Urban Japan: Cities and Planning from Edo to the Twenty-First Century, Nissan Institute/Routledge Japanese Studies Series, 2004, p. 322