Questo articolo è stato pubblicato su Domus 969, aprile 2013
Entrate nel nuovo studio di Junya Ishigami, nel quartiere di Roppongi a Tokyo, e la prima cosa che noterete, tra postazioni di lavoro e tavoli ingombri di plastici, è un grande foro spalancato nella lastra di cemento del pavimento. Decido di dare un’occhiata in basso, nel seminterrato, e vedo un mare di modelli di progetti più o meno recenti, ammonticchiati disordinatamente fin dove l’occhio riesce a spingersi.
I collaboratori di Ishigami (un numero relativamente limitato, se si considera la prodigiosa produzione di plastici dello studio) paiono essersi così abituati all’inusitata presenza di un un’apertura nel pavimento da non farci più caso, e sembrano leggermente meravigliati del fatto che io me ne sorprenda. Come tutti i veri visionari, Ishigami opera creando poderosi campi di realtà distorta, e il buco nel pavimento è forse la cosa meno anomala che i suoi assistenti devono imparare a metabolizzare. Per lui, ciascun progetto rappresenta un’opportunità per mettere in dubbio i presupposti fondamentali di ogni aspetto della pratica architettonica: dallo sviluppo ingegneristico all’arredamento, dalla circolazione al controllo climatico, Ishigami immagina una condizione o un’esperienza.
Ingegneria e tradizione
Un’incursione nello studio di Junya Ishigami a Tokyo rivela nuovi aspetti della sua filosofia di progetto, tesa a creare esperienze architettoniche in bilico tra sfide ingegneristiche e gesti semplici.
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- Joseph Grima
- 10 giugno 2013
- Tokyo
Poi, per realizzarle, trascina l’architettura ai limiti dell’impossibile. Proprio come nelle installazioni Skyspace di James Turrell, in cui le più semplici esperienze — come l’atto di osservare un cielo che cambia colore —vengono isolate dilatandone straordinariamente la durata, per Ishigami l’esperienza è l’architettura, e l’involucro è semplicemente uno strumento per determinarne l’inizio. Conseguenza di tutto ciò è un sovrano disinteresse nei confronti dello sforzo richiesto per far sì che tale esperienza abbia luogo: così, le realizzazioni di Ishigami coprono lo spettro che va da sfide tecniche, pressoché inconcepibili, a semplici gesti di dislocazione.
Il contrasto tra tre progetti attualmente in fase di sviluppo nello studio costituisce una chiara dimostrazione di questa dicotomia. In quello stesso campus del Kanagawa Institute of Technology, dove nel 2008 Ishigami ha completato l’edificio che ospita i laboratori (vedi Domus 913, 2008) — il primo lavoro a procurargli un riconoscimento a livello internazionale per il suo open space interrotto solo da una selva di colonne filiformi — è in fase di realizzazione un progetto ancora più ambizioso. Come nell’ambiente aperto del primo manufatto, la nuova struttura confonde tutte le definizioni correntemente collegate alle tipologie di architettura universitaria. Ishigami la chiama “una caffetteria associata a uno spazio multiuso semi-esterno”, e la goffaggine di questa definizione non fa altro che sottolineare, non appena ci si trova dinanzi al modello, quanto sia estrema l’ambizione del progetto.
Da una parte, l’edificio è frutto di un gesto tra i più semplici: un singolo ambiente, dal soffitto piuttosto basso—2,30 m, abbastanza basso da permettere di sfiorarlo alzando un braccio. Dall’altra, si tratta di una delle sfide tecniche più fenomenali che mai abbia interessato il mondo delle strutture universitarie: perché questa sala ha le dimensioni di un campo di calcio, e non c’è una sola colonna che sostenga il tetto in tutta la sua estensione. La copertura è realizzata con una singola lastra, spessa 9 mm, di acciaio tensionato, forata da tagli rettangolari che consentono alla luce e agli elementi naturali di fare ingresso nello spazio interno, creando dei giardini semi-chiusi.
Sopra, un sottile strato di terriccio trasforma il tetto stesso in un paesaggio di erba e piante. Il padiglione è, al tempo stesso, una megastruttura e uno spazio intimo — un gesto spontaneo ma sbalorditivo in quanto a scala — e, come i precedenti lavori di Ishigami, presenta una dimensione profondamente umana: mentre la lastra d’acciaio del tetto si espande e si contrae per effetto dei mutamenti climatici, l’altezza del soffitto varia fino a 80 cm, come se l’edificio fosse vivo e respirasse.
Con l’incarico per un complesso abitativo per anziani affetti da demenza senile, Ishigami ha nuovamente aggirato il convenzionale itinerario che porta alla costruzione di un edificio. Le specifiche di progetto sottolineavano la necessità di un ambiente architettonico che i residenti dovevano essere in grado di riconoscere con facilità, capace di agevolare il processo d’identificazione di ciascuna abitazione per mezzo delle caratteristiche uniche di ogni singolo spazio. La strategia proposta impiega una tecnica nota in giapponese con il termine Hikiya, parola con cui si indica lo spostamento di una casa da un luogo a un altro senza smontarne la struttura: anziché essere un singolo edificio, il centro è composto da una serie di abitazioni in legno provenienti da villaggi di tutto il Giappone. In effetti, è molto simile a un piccolo agglomerato urbano, compresso all’interno del sito di un unico edificio, dove i singoli elementi si adattano perfettamente in una sola struttura architettonica grazie alla griglia del materasso tatami, intorno alla quale è organizzata gran parte dell’architettura domestica giapponese.
Ogni unità possiede un carattere distinto, definito dalle proporzioni del telaio dell’edificio, che variano a seconda della località e del periodo della costruzione, ma anche della tecnica usata dai falegnami che hanno costruito la casa e del modo in cui è stata abitata. Un’identità unica e riconoscibile è incorporata nell’impalcatura strutturale in legno e nel suo tetto originale, e al complesso è conferita un’immagine unitaria grazie all’‘astrazione’ dall’architettura vernacolare operata tramite la sostituzione del rivestimento con vetro e metallo. “L’obiettivo”, secondo Ishigami, “era la creazione di un nuovo tipo di spazio ibrido, che non potesse essere concepito né dall’architettura contemporanea né da quella tradizionale”. Si tratta di una soluzione profondamente empatica, che realizza un’ibridazione di architettura e urbanistica in uno spazio inedito, eppure culturalmente familiare ai residenti.
Gran parte del lavoro di Ishigami è permeato da questa profonda empatia per la pratica del vivere la quotidianità. In un sobborgo di Tokyo (“un paesaggio composto da nient’altro che l’iterazione di case prefabbricate a formare una distesa senza fine”, specifica Ishigami), lo studio ha recentemente completato l’abitazione di una giovane coppia, iniettando un microcosmo naturale all’interno dell’ambiente artificiale della città.
Questo approccio può essere descritto come un esercizio sull’atto di non creare un’immagine architettonica: diversamente dalla maggior parte degli altri esempi recenti di edilizia abitativa in Giappone, l’esterno è controllato fin quasi ad apparire anonimo, pressoché perfettamente mimetizzato nel suo contesto urbano, ordinario e piuttosto aspro. All’interno, tuttavia, l’atto di produrre architettura è racchiuso nel desiderio di creare un paesaggio—obiettivo chiaramente espresso dalla porzione di suolo lasciato scoperto nel soggiorno, dalla cui terra una piccola foresta di alberi s’innalza nello spazio a doppia altezza. Guardando fuori in strada, ci si rende conto che l’ambiente interno di questa abitazione è sentito come uno spazio più naturale di quello regolare e allineato che caratterizza il quartiere circostante.
Ciò che distingue Ishigami da altri rappresentanti della sua generazione è la semplicità dei gesti attraverso cui è prodotta la sua architettura, indipendentemente dalla complessità richiesta per attuarli. Le sue realizzazioni sono rigorose, ma anche profondamente umane, guidate dal desiderio di trasformare le azioni di ogni giorno in esperienze architettoniche e di tramutare il quotidiano in qualcosa di sbalorditivo ma affascinante. Forse il buco nel pavimento del suo studio è un pacato avvertimento su quanto l’architettura possa essere minacciosa e su quanto sia facile lasciarsene fagocitare. —JG