Un’osservazione scoraggiante: la maggior parte di quel che crediamo di sapere a proposito dell’uso del computer fatto dagli architetti nell’arco della rivoluzione del personal computing a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta lo sappiamo per sentito dire e si fonda per lo più sull’equivoco. In parte il problema è questione di prove. Se cerchiamo di tracciare la genealogia del ‘digitale’ a partire dalle numerose tecniche in uso oggi, in questo decennio critico inizia a svelarsi un’esplosione delle pratiche informatiche, ma i particolari del modo in cui il computer veniva usato (chi premeva quale tasto e quando) rimangono quasi completamente ambigui. I file restano nell’oblio su vecchi dischi rigidi e il lavoro d’indagine richiesto per mettere insieme i pezzi della storia è stato trascurato. Ancor più spiacevole, comunque, è il diffuso equivoco secondo il quale la sperimentazione veniva sviluppata da giovani professionisti che giocherellavano con software meravigliosi e scoprivano effetti spettacolari. "Archaeology of the Digital", la mostra del Canadian Centre for Architecture a cura di Greg Lynn, è la prima che inizia a scovare delle prove e comincia a mettere insieme un ritratto ricco di sfumature del complesso ecosistema da cui è nata l’architettura digitale che oggi ci vediamo intorno.
Greg Lynn fa la parte della cartina di tornasole. Invece di tentare di costruire una narrazione esauriente del “digitale” la mostra presenta i materiali di qualcosa che assomiglia a una biografia intellettuale del curatore: quattro progetti che contano per Lynn, personaggio d’avanguardia della sperimentazione digitale. Gli autori di questi progetti hanno tutti raggiunto il vertice della carriera durante questo periodo e ciascuno ha adottato una specifica potenzialità dell’informatica come strumento per raggiungere un proprio particolare fine teorico o pratico. Il progetto del Biocentrum di Peter Eisenman è protoparametrico: gli algoritmi generativi si fanno carico di parte del lavoro di processo progettuale, ammettendo nel quadro strategico una parte di controllo autoriale.
Casa Lewis di Frank Gehry fu la prima sperimentazione importante con il software aerospaziale modificato ad hoc del suo studio, trait d’union tra il suo metodo progettuale analogico e la razionalizzazione digitale; un processo che è diventato il suo marchio di fabbrica. La sfera a espansione di Chuck Hoberman inaugurò un’epoca di stretta collaborazione tra progettazione e fabbricazione sulla base di complesse nozioni di logica meccanica e di programmazione informatica. Shoei Yoh, per molti aspetti il personaggio chiave, vedeva un nesso più profondo tra natura e processi computazionali complessi: la sua palestra Galaxy Toyama, l’unico progetto costruito in scala architettonica, offre una visione convincente a livello mondiale in cui ottimizzazione strutturale, suggestioni ingegneristiche e filosofia di vita coesistono in modo efficace.
Ma questo è solo il profilo schematico di un ricco corpus di materiali. Non comprende, per esempio, la parte cruciale dei robot fiammeggianti. (L’interesse di Yoh per la bellezza dei fenomeni naturali non esclude pavimenti meccanizzati ed emissioni di fiamme di gas infuse di metallo liquido.) E trascura l’importante differenza tra le curve ad andamento whoosh e quelle ad andamento doink doink doink. (La levigatezza delle prime è preferita da Lynn come implicazione di movimento, l’altra da Eisenman in quanto indice di generatività.) È prova della genialità istituzionale del CCA il fatto che sia in grado di cogliere il gergo professionale che fa apparire talvolta l’architettura digitale come una specie di pratica occulta accanto alle prove documentali che le permettono di essere storicizzata e affrontata criticamente. È incredibilmente importante per la cultura architettonica iniziare a farlo per porre rimedio alla separazione, evidente al debutto dei progetti della mostra e perdurante ancor oggi, tra certi giovani professionisti (come Lynn) che coglievano una risonanza tra ambizioni schiettamente teoriche e potenzialità computazionali e una generazione di teorici (come Sanford Kwinter) che spesso consideravano l’infatuazione degli architetti per il computer come il tradimento di una riflessione più approfondita. Gli architetti non parlavano di aria fritta, afferma la mostra; e fornisce i materiali necessari a sostenere questa affermazione. Resta ancora molto da studiare, ma una cosa è già chiara: l’architettura digitale non è solo il risultato di computer da poco, ma il dispiegarsi di una cosmologia esplosivamente eterogenea.
E di conseguenza è evidente che le direzioni evolutive prese dall’architettura digitale non erano inevitabili. Secondo queste linee si spererebbe che un progetto archeologico fosse in grado di scoprire materiali che smontano pregiudizi e richiedono innovazioni storiche e teoriche. Forse la mostra l’ha fatto, ma la sua attenzione sulla documentazione più che sul racconto della storia dei progetti ci lascia liberi di creare gran parte della narrazione per conto nostro.
Tra le questioni più importanti sollevate dalla mostra ci sono quelle riguardanti l’ontologia dei materiali digitali. Come si raccolgono e si espongono i materiali digitali? La mostra comprende schermi con modelli che si possono ruotare e ingrandire, ma data la facilità con cui i processi di produzione digitali sono riproducibili (a paragone, per esempio, della pittura) l’interattività probabilmente avrebbe potuto essere spinta più in là. A livello più fondamentale: i musei, insieme con i documenti digitali, devono conservare anche hardware e software funzionanti? Altri musei hanno sollevato la questione, soprattutto riguardo ai videogiochi, ed è interessante vedere in prima linea anche un’istituzione d’architettura. Archaeology of the Digital è la prima di tre mostre e non fa che scalfire la superficie di circa 25 progetti annunciati, tanto che possiamo attenderci sperimentazioni più avanzate.