Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 967, marzo 2013
Ripensare l’architettura nel profondo, per arrivare a tener conto, già in fase di progetto, della dimensione temporale. Un ripensamento così radicale non sarà cosa di un giorno. Ci vorrà tempo. E metodo. [1]
Ripartire dal progetto dunque, cioè là dove tutto ha inizio, con l’umiltà e la freschezza del primo approccio, tornando a pensare in termini di pianta, prospetto, sezione. Insieme a un’altrettanto profonda riflessione sui materiali, ritengo che sia questo il nodo cruciale che l’architettura contemporanea—nel senso del qui e dell’ora — si trova a dover sciogliere. Ammesso che voglia tornare a essere linguaggio, e non rassegnarsi al ruolo di semplice mass medium del tutto privo di ideologia [2]; costrizione che peraltro, almeno sino a oggi, essa è sembrata ‘subire’ con entusiasmo a volte più che sospetto. Ideologia: parola desueta, addirittura scabrosa, ma inevitabile, dato che per linguaggio si intende qui linguaggio politico, com’è del resto proprio della sua natura. Intendo dell’architettura, che è arte eminentemente democratica. Come da chiusa in esergo, è evidente che un processo di revisione di tale portata, che implica necessariamente anche una ridefinizione del ruolo di architetto, non può essere cosa di un giorno, visto che si tratta di fare ordine nella spaventosa accumulazione di teorie prodotte negli ultimi decenni [3].
Molte, troppe le scatole vuote. Occupano spazio, chiudono la visuale, intralciano i movimenti; inoltre, sono invecchiate malissimo. È tempo di buttare via. La quantità è tale che si apre il problema dello smaltimento dei rifiuti. Chiedo scusa. Mi è scappato scritto. Trovandosi l’architettura oggetto della nostra analisi a Piscinola, al confine con Scampia, è inevitabile che la parola rifiuti esca fuori quasi spontaneamente. Vero è che chiunque si rechi a Napoli—e chi scrive non fa eccezione—non può fare a meno di portare con sé un pregiudizio che lo rende quantomeno particolarmente sensibile alla questione. E un pregiudizio, anche quando è fondato, resta comunque un pregiudizio. Come avere una pagliuzza in un occhio: per tornare a veder chiaro bisogna toglierla. Più facile a dirsi che a farsi, penso scendendo dal treno. Mi avvio verso l’uscita con questo pensiero in testa. Davanti a me cammina un giovane uomo sui trenta, abbigliamento e aspetto molto curati. A un certo punto si ferma, si gira, prende la mira, e in bello stile getta una carta appallottolata verso un cestino. La carta rimbalza sul bordo e cade a terra. Il tipo sembra deluso. Resta un momento sul colpo, poi si gira e se ne va. Eccomi arrivato a Napoli, penso. Il tempo di uscire dalla stazione. Davanti a me un assembramento di taxi. Un tassista scende dall’auto, prende la mira e lancia una buccia di banana verso il cestino dell’organico, che è a pochi passi da dove mi sono fermato a fumare. A Napoli, in questo periodo, va decisamente meglio con il calcio che con il basket: due errori su due tentativi. La buccia manca completamente il bersaglio e si affloscia a terra. Lui si fa avanti, si china a raccoglierla, la butta nel cestino e risale sul suo taxi. Fosse una sceneggiatura, la sequenza suonerebbe finta e sarebbe da buttare (cestino della carta). Per fortuna la realtà non è un film, et voilà: la pagliuzza è tolta. Pratica rifiuti espletata. Torniamo a parlare di architettura. Siamo qui per questo.
Avevo cominciato a sospettare qualcosa già scorrendo il materiale preventivamente inviatomi, ovvero foto, disegni e relazione di progetto. La ‘leggerezza’ del tutto, l’evidente ironia, nel senso di auto-ironia—qualità rara in generale, ma ancor più rara se restringiamo il campo all’architettura cosiddetta d’autore—; l’introduzione dell’alea come cifra progettuale—varco che, necessariamente, deve essere lasciato aperto, se si vuole accogliere la quarta dimensione, ovvero quella temporale, e lasciarsi così finalmente alle spalle l’inerzia di un secolo che ha esaurito le prime tre; e infine i materiali, soprattutto quelle piastrelle in ceramica blu, segno forte, deciso, che incide il grigio dominante dell’intorno. Eppure, leggendo il progetto, ciò che spiccava in modo così netto, per apparente originalità, non mi sembrava affatto gratuito ma, al contrario, molto più nella tradizione, o meglio nello spirito del luogo, delle edificazioni preesistenti, con cui andava a confrontarsi in modo diretto, senza infingimenti. Una leggerezza dotata di solide fondamenta, dunque. Nel paradosso, il sospetto si era rafforzato.
Ora, in cantiere; scena che conosco, calcata più volte, in passato, nei ruoli più diversi: manovale, geometra, geometra comunale a tempo determinato, di nuovo manovale e, infine, lattoniere — la sequenza è cronologica. I tecnici di cantiere, anche se non ne avvertiamo il bisogno, insistono per farci scortare da due vigilantes. Fidarsi è bene, dicono, ma non fidarsi è sempre meglio. A una logica così stringente, opporre resistenza significherebbe solo perdere del tempo, e il nostro non è molto. Così ci avviamo, gli architetti, l’autore e i due vigilantes, che più che scortarci ci tengono compagnia. Pochi passi, e subito una conferma: la facciata del blocco di alloggi alla nostra sinistra, in chiara rotta di collisione con il blocco ‘berlinese’ [4] che dovrebbe rimpiazzare, restringe la prospettiva in un angolo drammatico che mette in tensione i due edifici. A breve, mi spiega l’architetto Gambardella, le pinze frantumatrici toglieranno di mezzo il vecchio edificio, dando aria e luce al nuovo. Devo dire che un po’ mi dispiace, aggiunge, perché il contrasto è interessante. Concordo. Ma c’è speranza: a Napoli, i concetti di provvisorio e di permanente non divergono mai in dicotomia, ma tendono piuttosto a sfumare uno nell’altro. Breve periplo della piazza interna.
Il processo di appropriazione e ridefinizione degli spazi, da parte dei nuovi abitanti, è in atto: la piazza pedonale, come previsto, è un parcheggio; i panni stesi colorano le facciate; un balcone è già stato trasformato in veranda, riadattando alla meglio una serie di infissi in alluminio, smontati dal vecchio appartamento. L’architetto me lo indica con soddisfazione. Il progetto prevede l’abuso, mi spiega, anzi lo incoraggia. Pensare a questi prospetti nel tempo, ovvero come una cosa viva, mette tutti di buon umore. Un rapido sguardo ai giardini di proprietà — tutti molto ‘trendy’, più Clément di Clément, per così dire — e, costeggiando il lato interno del caseggiato berlinese, raggiungiamo il blocco di alloggi intravisto in precedenza attraverso lo scorcio dell’angolo drammatico. Qui la visita si trasforma e prende una piega dialettica. Gli abitanti, scambiandoci per funzionari del Comune, ci si fanno incontro per esporci, in modo devo dire sempre estremamente professionale, tutte le loro rimostranze e lamentele. Senza inquietudine, chiariamo l’equivoco. Ah!, dice una signora, arrivata appositamente in macchina da non ricordo dove, avvertita al telefono dalla figlia, Dunque siete un giornalista. No signora, puntualizzo, Solo scrittore.
E allora quel che avete visto lo dovete scrivere! Certo, dico, lo farò. È quel che faccio sempre.
Sulla via del ritorno, breve giro attraverso Scampia, per un rapido sguardo alle Vele (arch. Franz Di Salvo e Riccardo Morandi), e alle “grandi case a muraglia di mattoni (arch. Nicola Pagliara, sempre anni Settanta), che io, come le Vele, trovo belle e collettive”, come mi scriverà poi l’architetto Gambardella. Anch’io le trovo belle. “Bellezza imperfetta”, queste le parole usate dal mio ospite per descrivermi, nel generale, la sua idea di bellezza “qui e ora”—idea che del resto, come ho verificato visitando l’opera, è coerentemente applicata anche nell’ambito della professione. Di nuovo concordo! C’è di che preoccuparsi. Come diceva un grande così grande che non c’è nemmeno bisogno di citarlo: “Se è una bella giornata, esco sempre con l’ombrello. Potrebbe piovere”.
Però, penso lasciando la tastiera, dopo la mia visita a Napoli ha piovuto quasi tutti i giorni e oggi splende il sole. In ogni caso il problema non si pone. L’ombrello non lo porto nemmeno quando piove.
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Vitaliano Trevisan, Scrittore drammaturgo
Note
1. Tempo e metodo, saggio commissionato dalla Fondazione Francesco Fabbri, in occasione delle giornate di studio “Impatto paesaggio/Capannone senza padrone”, nell’ambito del Festival Città Impresa 2011
2. Vedi: Manfredo Tafuri, L’architecture dans le boudoir, in La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980
3. Vedi: Marco Biraghi, Parole contro il vuoto, introduzione a Marco Biraghi e Giovanni Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura, Einaudi, Torino 2009