Più che di oggetti, si potrebbe parlare di "feticci creativi", ai quali gli autori affidano il compito di accompagnarli nell'esercizio dell'architettura. A ognuno è stata inviata una scatola, e chiesto poi di rimandarla indietro con gli "oggetti improbabili, ma anche talvolta banali" da cui traggono ispirazione nel loro lavoro. C'è chi, come Peter Zumthor, ha messo insieme una serie di barattoli di colore e chi, come Shigeru Ban, ha rivelato un accorto riutilizzo di fotocopie ed e-mail usate. Rilegate, sono state riciclate per dare vita a raffinati taccuini di schizzi fatti a mano.
Bijoy Jain di Studio Mumbai ha costruito una sorta di altarino: il suo scrigno ligneo, rivestito con foto e un video che narrano della vita dei villaggi indiani, racchiude una serie di piccole architetture in fusione di bronzo. Ci sono invece i ricordi di un viaggio (e forse il desiderio di avere un'altra vita) nella scatola di Sheila O'Donnell e John Tuomey: una sedia azzurra, di quelle che si usano in Grecia, pastelli a cera, acquerelli raffiguranti una chiesetta, ciottoli e un fiore secco. Ricordi sono anche quelli racchiusi nelle pietre che Toyo Ito raduna nella sua scatola: frammenti di macerie raccolti nel villaggio di Sanriku. Il villaggio fu distrutto dallo tsunami l'11 marzo del 2011.
Tra tutte, però, scelgo quella di Diébédo Francis Kéré: racchiude la terra rossa del suo Paese, il Burkina Faso, e un rudimentale strumento in legno per batterla. Niente di più, ma probabilmente l'origine di molte cose.