Stefano Casciani: Caro Peter, da quanto hai aperto questo studio?
Peter Cook: Da circa quattro anni, lavoriamo insieme a diversi concorsi: ora abbiamo due progetti in fase di realizzazione, uno a Madrid e uno a Vienna.
Ci siamo aggiudicati anche la commissione per il teatro di Verbania, ma è molto difficile capire se sarà costruito o meno.
Adesso finalmente hai un vero e proprio studio, ma quando hai costruito la Kunsthaus di Graz, l'opera che meglio rappresenta il tuo lavoro, non avevi alcuna
struttura. Come lavoravi?
Beh, ho creato questo studio proprio per quello. Colin Fournier, che ha lavorato con me al progetto di Graz (vedi Domus 865, 2003), è un altro professore della Bartlett, ma avevamo collaborato anche in passato, ai tempi di Archigram. Poi si sono presentate alcune opportunità di lavoro in Spagna, così Gavin Robotham e io abbiamo deciso che era tempo di rischiare. Ero al termine della carriera accademica
a tempo pieno, mi ero praticamente ritirato dall'insegnamento, ma ero anche impegnato in mille altre cose... Poi abbiamo fatto un paio di consulenze insieme: è da quel momento che fa la sua comparsa CRABstudio Architects. Due anni fa
ci siamo aggiudicati il grande concorso di Vienna, che ha rappresentato un momento molto importante per la nostra attività: si tratta di un edificio di
grandi dimensioni, che continuerà a impegnarci per almeno altri due anni e mezzo. I disegni sono tutti finiti e adesso si passa al cantiere. È una situazione molto interessante, perché ci sono numerosi edifici progettati da diversi architetti, ma seguiti in contemporanea dallo stesso gruppo ingegneristico: Zaha Hadid ne costruisce uno, così anche Hitoshi Abe, Carme Pinós e Eduardo Arroyo.
Perché pensi di aver avuto bisogno di così tanto tempo per iniziare a costruire?
Non so, credo si sia trattato di una sorta di 'cospirazione'. Quando sono andato a vivere con la mia seconda moglie, è arrivato un bambino quasi subito. Nessuno dei due aveva figli e tutti ci dicevano che, quando arrivano i figli, cambi completamente il tuo modo di pensare: così molti sostengono che, se riesci
a costruire un edificio, cambi completamente la tua mentalità. A me entrambe le cose sono successe quasi contemporaneamente, ma non hanno modificato
di molto né il mio comportamento né il mio modo di pensare. Quindi, penso a una 'cospirazione' per tenerci fuori dalla possibilità di costruire.
Ricordo una conversazione con Rem Koolhaas. Quando è a Londra, abita alla fine della mia via. Circa cinque anni fa, ci incontriamo casualmente per strada, cominciamo a parlare delle persone che ricordiamo, dei tempi dell'insegnamento all'Architectural Association, in particolare del periodo tra gli anni Settanta e Ottanta. In quegli anni, molti dicevano di noi che eravamo degli artisti, interessati
solo a disegnare e dipingere, che non avevamo alcuna intenzione di costruire. Poi abbiamo fatto la lista dei 'nostri' e ci siamo accorti, invece, che tutti quelli che avevamo inserito nel nostro elenco, avevano in effetti cominciato a costruire: e Rem ha detto che si trattava proprio di una 'cospirazione'. Per certi versi, i rappresentanti del sistema non vogliono che gente come noi costruisca: preferiscono trattarti come un artista.
Sei soddisfatto della Kunsthaus di Graz?
Al novantacinque per cento. Il cinque per cento ha a che fare col trattamento dei lucernari, all'interno dell'edificio. A un certo punto, a Graz hanno bloccato i lavori, avevano finito i soldi. In realtà, i lucernari dovevano completare la curvatura.
Dovevano anche essere un po' più grandi, per aver maggior effetto, ma sono abbastanza soddisfatto. Ci sono cose di cui sono molto contento, come i passaggi esterni sul tetto o l'Ago: quando descrivo l'edificio nelle conferenze, dico sempre
che si tratta di un teatro in cui l'azione è ritardata. Il blocco centrale è staccato dalla strada, quasi nella classica maniera moderna in cui la struttura si trova più in alto rispetto al piano stradale. Poi ci entri quasi segretamente, ci entri con noncuranza usando il travelator – il nastro trasportatore. È piuttosto divertente, sali su questo congegno così ordinario e sparisci nell'ignoto. Lo spazio espositivo
è immerso completamente nell'ignoto: uno spazio misterioso. Poi sali i due piani, svoltando a gomito sul nastro trasportatore, fino a raggiungere l'ultimo livello. Poi, se vuoi, puoi uscire all'aperto per trovarti avvolto in questa sorpresa che è la città.
Ti ricordi l'edificio? Ci sono quei lunghi lucernari rivolti verso nord: eccetto uno, quello che io chiamo 'disubbidiente' e, se guardi attraverso quest'ultimo, vedi il Castello: in un certo senso, la città è l'opera d'arte fondamentale presentata nel museo.
Si trattava di un sito molto difficile, costretto, con ventisette ditte diverse con cui lavorare: tuttavia, in qualche modo, ha funzionato. Penso sarebbe stato più difficile costruirlo altrove.
Non è una contraddizione delle tue teorie?
Contraddizione della teoria, forse: ma, a livello pratico, si è fortunati quando si lavora in un posto in cui, alla fine, puoi realizzare veramente ciò che volevi. Mi pare curioso che, tra tutti i posti possibili, io abbia vinto tre gare d'appalto in Austria. Uno dei progetti non si è mai concretizzato, quello a cui avevo lavorato insieme a Christine Hawley: doveva sorgere sul fianco di una collina, un piccolo edificio
che rispondeva a uno schema molto bello. Purtroppo, ancora una volta, non c'erano i soldi: ma è interessante aver vinto tre gare in Austria e realizzato due progetti. È veramente strano e, allo stesso tempo, intrigante.
Gli austriaci hanno una certa tradizione di architettura bizzarra, eccentrica…
Quell'eccentricità è, insieme, un vantaggio e uno svantaggio, rende il suo rapporto con la gente difficile, persino perverso. D'altra parte, sono forse proprio questa difficoltà e questa perversità a permettere alla gente di comprenderla.
Torniamo un momento agli inizi della tua carriera. Com'è nata Archigram?
Penso sia tutto nato dal fatto che Londra era pronta per le cose che ci interessavano. Questa città è sempre stata un posto molto stimolante: è come un'infezione in corso, come qualcosa che bolle costantemente in sottofondo senza che, in superficie, appaia alcunché. È anche un luogo in cui la gente ha una
soglia molto bassa di sopportazione della noia. Ci annoiamo subito, riceviamo il vasto flusso di idee provenienti dall'Europa continentale e la gente, all'inizio, ci entusiasma, ma poi… un po' come fanno i giapponesi con l'Asia continentale. I giapponesi sono molto simili a noi: a loro piace stravolgere. Amano le idee strane. Noi di Archigram abbiamo avuto anche degli insegnanti molto interessanti: Ron Herron ha studiato con Julius Posener, David Greene con Buckminster Fuller, Michael Webb con James Stirling e Kenneth Frampton. Tra i miei insegnanti ho avuto Peter Smithson e Arthur Korn (un importante architetto tedesco che aveva fatto parte del Ring e del Novembergruppe): ne abbiamo ereditato direttamente parte dello spirito. Non siamo usciti dal nulla, abbiamo studiato con gente molto stimolante e il fatto che si siano formati due sottogruppi penso sia stata una combinazione fortunata.
Il gruppo più anziano, formato da Chalk, Herron e Crompton, aveva lavorato nella zona sud del Tamigi, per il London City Council, dove aveva già costruito delle cose. Poi c'eravamo noi, un gruppo leggermente più giovane, con Michael
Webb, David Greene e io. Eravamo usciti da scuola e avevamo cominciato a partecipare ai concorsi, poi in qualche modo i due gruppi si sono incontrati.
Abbiamo macchinato per fare in modo di lavorare per la stessa persona, Theo Crosby, che era stato uno dei redattori di AD e aveva una stazione da riprogettare. Quel lavoro, alla fine, non si è mai concretizzato, ma Crosby ci ha portati tutti nel suo studio e così abbiamo avuto una scusa per lavorare assieme: poi ha anche trovato i soldi per farci fare una mostra all'Institute of Contemporary Arts, dei
libri e delle riviste. La fanzine di Archigram era stata realizzata appena qualche tempo prima.
Come la distribuivate?
Portandola a un negozio in cui ci avevano detto che ne avrebbero prese dieci copie e che si sarebbe visto in seguito. La prima uscita ha venduto, forse, centocinquanta copie, fondamentalmente ad amici; la seconda, duecentocinquanta copie ad amici e amici degli amici; la terza, un po' di più e, all'improvviso, ha attirato l'attenzione di Reyner Banham, il critico. Lui ha scritto un articolo, parlando
del nostro giornale, e la quarta uscita, quella con i disegni pieghevoli, ha venduto 1.000 copie, è stata ristampata e, a quel punto, Banham ne ha dato un esemplare a Philip Johnson: poi è arrivata in Italia, a Firenze, e improvvisamente una libreria
ce ne ha chieste venti copie e Natalini e tutti gli altri ragazzi fiorentini hanno cominciato a leggerla. Avevamo già dei contatti con l'Austria tramite Hans Hollein. Con Natalini ero entrato in corrispondenza qualche tempo prima e avevamo anche contatti in Giappone tramite Arata Isozaki.
Siete entrati molto presto anche alla Triennale di Milano… Com'è successo?
A quel tempo eravamo già abbastanza conosciuti. Non so dirti esattamente chi ci avesse invitato, si trattava della famosa edizione del 1968 che venne chiusa ancora prima di inaugurare: un piccolo disastro da questo punto di vista, ma grazie alla Triennale abbiamo incontrato Arata Isozaki in persona, con il quale Ron Herron ed io siamo andati a insegnare a Los Angeles. È nata così questa connessione
Giappone-Austria-Inghilterra-Los Angeles: spiritualmente, si trattava di una combinazione molto interessante. Austriaci, giapponesi e inglesi a Los Angeles: si può dire che fosse il perfetto punto di partenza per il concretizzarsi di altre cose.
Los Angeles è la città in cui è esplosa la carriera di Reyner Banham e anche di Frank Gehry: eppure, è una città che meriterebbe più architettura di avanguardia. Perché pensi di non essere riuscito a costruire a Los Angeles?
Per gli architetti inglesi è molto difficile costruire negli Stati Uniti: forse ci riescono uno o due, ma senza costruire molto. Certo, adesso qualcuno ci riesce, come Zaha Hadid, ma lei ha commissioni veramente dappertutto, e comunque non costruiamo in proporzione. Penso che l'America sia un posto molto difficile per l'architettura di
sperimentazione. Ci sono certamente alcuni architetti d'avanguardia, come Gehry, Morphosis, Eric Owen Moss e, per altri versi, Steven Holl: ma poi la lista si assottiglia piuttosto velocemente, se fai un paragone con l'Europa, con tutti gli architetti britannici, francesi, italiani, spagnoli, austriaci o danesi… C'è un sacco di gente interessante: ma vai in America a vedere quanti architetti interessanti
ci sono! Molti a Los Angeles e a New York, ma quanti ne trovi in questo periodo a Chicago? Due o tre, un paio. Persino i meno interessanti, tecnici e commerciali tra gli architetti tedeschi sono più interessanti dei loro equivalenti statunitensi.
Tu hai una lunga tradizione di collaborazione con SCIArc, il Southern California Institute of Architecture diretto da Eric Owen Moss. Ne vuoi parlare?
È decisamente curioso che sia stato io il primo a insegnare a Los Angeles. Ron Herron lavorava già lì ed era molto amico di Ray Kappe, il fondatore dello SCI-Arc. Poi, qualche anno dopo, sono arrivato io e l'attività della scuola era già stabile
e le cose si sono concretizzate. Anche se Ray mi ha identificato con la generazione fondatrice, mi sono riconosciuto molto meglio in quella successiva, la
sub-generazione rappresentata da Moss e Mayne e dagli altri ragazzi: mi pareva di capirli meglio. Penso sia qualcosa che ha a che fare con la stessa Los Angeles o forse, più semplicemente, è una forma di mitologia presente solo nella mia testa. Un'altra cosa che mi colpisce è la maniera in cui, a Los Angeles, puoi discutere di architettura: ovvero molto più liberamente che non, per esempio, a New York o Parigi, dove devi posizionarti in modo molto specifico. Penso che, sia a Londra sia
a Los Angeles, si possa girare senza temere di dover affrontare il nemico e, anche se lo incontri, probabilmente finisce che vai a bere qualcosa insieme…
A New York, se ti vedono pranzare con qualcuno, pensano subito che ci sia sotto qualcosa.
Pensi ci sia un futuro per le scuole di architettura? Non ti pare che tutto stia diventando troppo tecnico o specialistico?
Spero che ci siano sempre delle scuole di architettura eccentriche rispetto alla norma. Penso che le scuole più interessanti siano anche effimere, fragili. Se torni indietro di qualche anno, alla morte di Alvin Boyarsky, l'Architectural Association ha
rischiato di chiudere, cosa che nessuno avrebbe mai pensato potesse accadere: la scuola aveva una storia lunga centocinquant'anni ed era sempre stata il posto di riferimento a Londra. Forse non si è mai ripresa completamente. Penso che lo stesso
possa valere per SCI-Arc: è fragile e ha sempre problemi economici. Ora guardo all'istituto in cui insegnavo, il Bartlett, che sta cercando un sostituto per la posizione che ho lasciato. Ci hanno messo quattro anni per cominciare a cercarne uno e, se scelgono la persona sbagliata, potrebbe essere la fine: non dico che sparirà, ma non sarà più certo un posto interessante.
Ma come si fa ad avere scuole interessanti se è così difficile trovare docenti capaci?
Penso che un grande problema sia rappresentato dal fatto che le istituzioni accademiche sono riluttanti ad assumere professionisti o anche persone eccentriche. Vogliono accademici e c'è tutto un gioco di favori tra un certo tipo di accademici dell'architettura, che sono molto spesso dei teorici: dicono di saperne di più su come si gestisce una facoltà, perché si tratta del gioco nel quale sono dei veri esperti. Dicono che noi siamo persone che costruiscono edifici o disegnano, siamo un po' inaffidabili, non capiamo; quindi, progressivamente, i veri creativi
sono emarginati dall'attività di insegnamento nelle scuole di architettura. Di tanto in tanto, qualcuno riesce a infilarsi e dimostra che c'è veramente bisogno
di figure creative per mandare avanti le facoltà, e non di accademici. È il mio parere, mi rendo conto che si tratta di un punto di vista antiquato, ma so
di avere ragione, perché basta guardare ai risultati. Prendi John Hejduk. Era la classica figura eroica, aveva le sue teorie, personali e poetiche, ma era, di
fatto, un progettista interessante, anche se non ha prodotto molti edifici. Tuttavia, era molto particolare e ha inventato un'intera mitologia basata sulla sua
originalità. Quindi piace SCI-Arc proprio perché ci ha lavorato una serie di persone decisamente speciali: non è mai caduta nelle mani di figure noiose, un fatto davvero eccezionale.
Pensi che l'attuale stato dell'architettura, che si suppone essere molto avanzato in termini di tecniche costruttive e tecnologia, faccia parte di un'evoluzione sociale e storica, o sia solo una coincidenza casuale di diversi fattori?
Ritengo sia sempre una serie di fortunate coincidenze: penso che i metodi ora in uso permettano a qualsiasi progettista mediocre di sembrare interessante. Allo stesso modo, potremmo dire che le tecniche fotografiche permettono a un fotografo di scarso talento di fare fotografie almeno passabili. Se premi i tasti giusti sul computer e leggi le riviste giuste, puoi produrre qualcosa di decente. Naturalmente, chi se ne intende davvero capisce immediatamente se il tuo lavoro è buono o cattivo e avrà sempre motivi per considerare alcuni edifici al di sopra di altri. Per esempio, ho avuto la fortuna di essere a Kansas City quando il
Nelson-Atkins Museum of Art di Steven Holl era finito per tre quarti: per un esperto si tratta di un edificio molto interessante. Piace anche alla gente comune, è una bella costruzione. Non è accattivante, ma per l'occhio attento si tratta di un
edificio interessante. Funziona bene in termini di relazione con il sito, di come cambia la geometria, di come tratta la trasparenza e altre cose strane: che per chi se ne intende, sono veramente notevoli.
Quali altri architetti, secondo te, usano meglio le nuove tecnologie?
Direi Toyo Ito, un architetto molto interessante, probabilmente oggi uno dei migliori: più o meno ogni cinque anni ha prodotto qualcosa che ha alzato l'asticella dello stato dell'arte. Non tutti i suoi edifici sono della più alta qualità, ma rimane un
architetto straordinario, molto più di figure che in questo momento sono molto di moda perché, credo, abbia mostrato una progressione magnifica.
Quando ha fatto il bar Nomad a Tokyo ha usato livelli e velature nel modo più fantastico che io abbia mai visto (e si trattava ancora degli esordi). Poi ha
costruito la Tower of the Winds che tutti hanno imitato. Quindi ha realizzato la mediateca di Sendai, che non ho visto, ma di nuovo ha sfidato le norme dello stato dell'arte. Si spinge sempre avanti. Quando mio figlio aveva un anno, lo abbiamo portato a una mostra al Victoria and Albert Museum. Si trattava di una stanza di Ito, nella quale ogni dimensione interagiva con lo spazio: mio figlio, improvvisamente, ha spalancato gli occhi nel suo passeggino, e mi sono chiesto quale impressione avesse. Lo ricordo come un momento molto significativo.
Mio figlio non era certo in grado di capire cosa fosse quello spazio a quattro dimensioni, si trattava della prima mostra che avesse mai visto, e ora non lo ricorda: ma penso che, anche per la sua esperienza, Ito sia molto, molto importante, per quanto sia incessantemente e costantemente criticato
da gente che, immagino, sia solo gelosa. Frank Gehry è straordinario quando gli parli, e quando ti porta in giro per lo studio, per il numero di idee che ha sempre per la testa. Personalmente non do valore tanto a chi realizza l'edificio più bello, ma a
chi ha veramente delle idee.
Vedi qualcosa di te in questi colleghi?
Lo spero… Certo, a volte uno è tremendamente geloso quando vede certi lavori, come capita a me con l'architettura di Morphosis. Ho visto alcuni lavori nello studio di Thom Mayne qualche giorno fa: è sbalorditivo, di una qualità sbalorditiva.
Sono rimasto molto colpito dal modo in cui usa le sovrapposizioni, le aperture tra i vari livelli: c'è un sacco di gente in giro che usa questo sistema delle sovrapposizioni, ma penso che i progettisti che ho menzionato… penso che se tutti gli architetti avessero le loro stesse nozioni… accidenti! Altri magari sono più eleganti, ma sicuramente non altrettanto interessanti.
Pensi che, se fossero state disponibili le tecnologie di oggi quando hai fatto i progetti di Archigram, le cose sarebbero state diverse?
Probabilmente sì, avremmo potuto fare cose davvero sorprendenti. È curioso vedere come adesso i nostri progetti siano considerati opere d'arte: ma se avessimo avuto gli strumenti, quelle opere d'arte avrebbero potuto avere quelle differenze di nuance che era difficile ottenere disegnando a mano. Quando disegni, la cosa è lì oppure non c'è: certe sfumature di allora sono simili a quelle di oggi, ma
ora tutto è fatto in pochi minuti da gente relativamente impreparata.
Hai veramente disegnato a mano i progetti di Archigram?
Archigram era una coalizione di persone amiche tra loro, era più una scuola che uno studio, un posto in cui accadevano molte cose diverse nello stesso momento. Per certi versi, talvolta eravamo anche in gara uno con l'altro. Ron Herron lavorava
alla Walking City e io ero tutto preso con la Plug-In City. Le nostre capacità di disegnare variavano a seconda delle persone. A Ron e a me piaceva molto
produrre un sacco di disegni, altri erano più lenti o cauti, oppure riflettevano a lungo prima di disegnare. Ho imparato molto da Chalk e da Herron, perché erano più vecchi di me e avevano già pubblicato dei lavori e sapevano disegnare: i loro lavori sembravano usciti già da una rivista. A volte credo che le cose possano variare, come quel disegno che ho fatto un anno e mezzo fa, quello verde laggiù. C'è un momento dove cominci e vedi che sta venendo bene: poi c'è una parte dove sei a
tre quarti del lavoro, e pensi: "OK, adesso devo finire il disegno". La stessa cosa accade con il colore: sperimenti col colore sulla superficie, poi il tutto comincia a muoversi, diventa quasi una cosa meccanica. Quante volte ho usato quel verde? Quanto riesco a fare stasera e quanto posso fare in una settimana?
Una specie di professionismo prende il sopravvento e bisogna finire, ma nel frattempo il pensiero si è allontanato: è la tecnica a dominare la scena. A volte, provi una specie di sollievo: guardi e ti rendi conto che le cose stanno venendo bene, che alla fine sarà un bel lavoro. Altre volte pensi: "Dio mio, dev'essere finito per lunedì!" e tiri avanti, sperando che tutto vada bene.
Come hai sviluppato i disegni per il progetto di Vienna?
Era un concorso in tre fasi: con una prima versione, una seconda versione avanzata e la versione finale dei disegni. È stato straordinario, ma dopo esserci
aggiudicati la commissione abbiamo dovuto abbattere sei milioni di euro di costi e, in seguito, un altro milione. Così abbiamo tirato di qua e di là, e strizzato tutto ben bene… Sono due edifici: uno ospita la facoltà di legge e un altro ospita invece gli
uffici amministrativi, uniti da un'arcata interna. È una sorta di edificio vagante, strutturato su livelli di colore. La biblioteca è sotto la parte frontale e ci sono molti spazi ricavati per essere usati come luoghi d'incontro: è fatta con strati di legno e ha sul retro delle strisce colorate, con il colore più scuro vicino al terreno e quello più chiaro verso il cielo, con una specie di livello più scuro in cima.
Qual era invece l'idea di fondo per il teatro di Verbania?
In un piccolo centro, il teatro non è solo un luogo in cui vai per una rappresentazione, ma un luogo che puoi usare ogni giorno e che ha spazi esterni
per eventi improvvisati. Il sito è la piazza. Conosci Verbania?
Certo. Che budget avete, se l'avete?
C'era un budget: ma è una strana situazione. C'è a disposizione una somma di denaro stanziata esclusivamente per costruire il teatro: non tantissimo, 12 o, forse, 20 milioni di euro. Non è molto quando cominci a costruire, ma abbastanza per realizzare la struttura esterna: dovevano trovare altri fondi per terminare gli interni. C'è un incentivo per proseguire con la realizzazione: se non lo fanno, quei
soldi, per qualche ragione, sono comunque utilizzabili esclusivamente per la costruzione di un teatro, non possono usarli per costruire una caserma dei vigili urbani. Non so, tu conosci la situazione meglio di me.
Purtroppo, si tratta della tipica situazione italiana…
Abbiamo avuto anche problemi con Gregotti, che aveva partecipato allo stesso concorso e non si è piazzato nemmeno secondo o terzo. Forse, quarto o quinto su nove progetti, ma sta facendo il diavolo a quattro, probabilmente perché si tratta del suo territorio: dico bene?
Sì, non è molto lontano: al di là di questo episodio, come vedi l'architettura italiana, il futuro delle città italiane?
La situazione mi pare tragica. Si tratta di una scena veramente strana: qui e là ci sono alcuni giovani studi interessanti, ma si tratta di un numero veramente esiguo, è una cosa fuori dall'ordinario. Se prendi qualsiasi altro Paese europeo (fatta eccezione forse per l'Albania) e ora persino alcuni dei Paesi dell'ex blocco comunista – la Slovenia e la Slovacchia, la Croazia – vedi un sacco di lavori interessanti. L'Italia è una tragedia: è talmente innamorata del proprio passato… è una situazione soffocante. A Milano c'è la scena del design, ma la situazione è
comunque veramente triste e non sembra mostrare alcun segno di cambiamento. Avremmo potuto avere la stessa conversazione trent'anni fa e sarebbe stato lo stesso.
Credi che le riviste di architettura siano utili per gli architetti?
Dovresti chiederlo ai ragazzi dello studio. È successa una cosa divertente circa un anno fa: Geoff Manaugh (ha un blog sulle costruzioni, che funziona con regolarità: BLDGBLOG) fa il giornalista e scrittore di design da qualche tempo. Un sacco di
ragazzi dello studio segue il suo blog per le informazioni che fornisce e, quando poi sono andato a SCIArc per far lezione, ho visto che lo leggono anche i miei studenti di Los Angeles. Poi, però, è uscito anche un suo libro, il BLDGBLOG Book, e anche se
il suo interesse primario rimane il blog, Manaugh è stato molto felice di vederlo pubblicato. È sembrato veramente contento anche quando sono arrivato a
Los Angeles con una copia del libro in mano e gli studenti dello SCI-Arc, che non lo avevano ancora visto, erano a loro volta entusiasti. Questo mi ha fatto pensare che il cerchio si era chiuso perfettamente: la generazione che riteniamo perfettamente soddisfatta del blog sembrava essere interessata al libro almeno quanto il suo autore. È come dire che un brano musicale su un CD è più autentico dello stesso brano scaricato da Internet. Anche i teatri sono ancora aperti e in gran numero: per qualche strana ragione la gente va al cinema più di quanto non facesse quindici o venti anni fa. Continua a prepararsi la cena, nonostante l'avvento
della cena in scatola da consumare davanti alla TV. Mi affascina il fatto che queste espressioni di periodi diversi possano coesistere, che possiamo scegliere dove collocarci: almeno in teoria. Per questo penso che il futuro delle riviste sia proporre
qualcosa di meglio che l'idea di uscire a comperare un periodico con fotografie di architettura: roba del genere te la puoi scaricare, la puoi avere online sempre più velocemente, ma quando vuoi qualcosa che ti indirizzi… allora è probabile che
le riviste diventeranno, come stanno già facendo, dei libri specializzati, un po' come fa AD. Quanto a Domus… non so quanto venda adesso.
Non male, 35.000 copie.
È ancora molto se paragonato ad altre riviste: è molto bello, sono molto contento della possibilità di essere messo in copertina.
Te lo meriti. Ho proposto io di dedicarti l'intervista e la copertina.
Grazie, è una cosa molto speciale essere sulla copertina di Domus perché è una bellissima rivista: persino la carta della copertina è più spessa di quella delle altre riviste. In che mese sarà?
Dicembre, sarai sulla copertina di dicembre.
Dicembre: allora dobbiamo organizzarci perché vorrei averne una pila. È come quando mia moglie ha pubblicato il suo libro: l'editore te ne dà un sacco di copie e io, a un certo punto, ho detto basta. Eppure, per quante copie hai, non sono mai abbastanza. Ne hai magari cento o duecento e poi ti svegli una mattina, sei mesi dopo, e la pila è calata un sacco: anche se non ricordi di avere dato il libro a nessuno. È, comunque, un oggetto che ha un valore e, se poi sei in copertina, non hai mai abbastanza copie. Ha un suo ruolo. Puoi sempre dire: "Hey, guardatemi" (ride).
Tornando alle riviste, mi sorprende sempre il numero di testate che vengono pubblicate, ma non sembrano contenere nulla che tu non possa trovare da qualche altra parte. Penso, per esempio, che le riviste tedesche di architettura non abbiano mai avuto quella speciale scintilla e ne sono sempre state prodotte molte. Anche in Francia e in Inghilterra se ne producono molte, a volte buone e a volte meno,
ma non ho mai visto niente di eccitante uscire dalla Germania. Una volta c'era una cosa interessante pubblicata in veste bilingue, tedesco e inglese, si chiamava Labyrinth. Anche Dedalus era interessante, ma poi è sparita. Arch+, a volte, è interessante. Non ho mai veramente capito l'andirivieni di gente a Domus. Avete questa abitudine un po' speciale di
cambiare i direttori ogni due anni. È la regola?
Una sorta di regola, ma ha più a che fare col destino, o con la sorte, se vuoi; cattiva sorte, buona sorte…
The plug-in citizen. Intervista con Peter Cook
Profeta dell'architettura d'oggi, Peter Cook attraversa il tempo e lo spazio, dalla swinging London alla città degli angeli, sempre armato del suo realismo visionario.
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- Stefano Casciani
- 11 dicembre 2010
- New York