Nell'Africa tradizionale, l'architettura è un fatto sociale. Chi ha bisogno di costruire una casa, per prima cosa, formula la richiesta al villaggio che, in genere, concede il permesso di costruire su un determinato terreno.
È importante dire, quindi, che per vivere nel villaggio e avere il diritto di costruire una casa circondata da un piccolo orto dove coltivare e crescere il cibo per nutrirsi, non c'è bisogno di pagare per il terreno: è considerata una pura necessità.
In secondo luogo, se devi costruire una casa non puoi farlo da solo. È un lavoro che riguarda la comunità del villaggio: ognuno partecipa.
Normalmente si usa l'argilla: le donne si occupano dell'acqua, gli uomini la mescolano all'argilla, i bambini aiutano a modo loro. Ognuno prende parte al lavoro della costruzione. Chi è in grado di fare i muri diritti, diventa muratore; gli altri aiutano come possono. Chi non può costruire, se ne sta seduto a dare consigli. I più vecchi avvertono: "Pensate alla pioggia", "Tenete conto del vento", "Orientate in questo modo o in quell'altro"....
Dunque non si può dire che esista un piano precostituito. Il processo della costruzione semplicemente accade. E l'architettura si definisce nel farsi della costruzione.
Quanto incide la tradizionale trasmissione orale del sapere?
La trasmissione orale del sapere è un fatto. I più anziani aiutano perché sono i depositari della memoria collettiva su come costruire. Tenendo conto del clima, delle stagioni, del vento,… ora la dimensione del costruire è diversa ma il modo è sempre lo stesso.
Nella sua esperienza con le scuole che ha costruito a Gando, il villaggio del Burkina Faso dove è nato e dove risiede la sua famiglia, come si conciliano tradizione e modernità?
Cerco di mettere a frutto cosa la gente è solita fare. Mi interessa partire da come si costruisce e come si lavora insieme: questo è il quello che intendo per spazio pubblico.
Normalmente, nel villaggio, lo spazio pubblico è uno spazio aperto. La gente si riunisce sotto un grande albero e parla.
Ora, la modernità ha introdotto nuovi sistemi educativi: c'è bisogno di nuovi spazi… Abbiamo incominciato col costruire edifici scolastici, cambiando un po' la prospettiva.
Normalmente, quando il governo decide la costruzione della scuola, viene chiamato un costruttore esterno che arriva nel villaggio e inizia a costruire applicando un sistema standard che prevede moduli in cemento (naturalmente il villaggio offre il terreno su cui costruire).
Per quanto mi riguarda, cerco, invece, di sfruttare il modo in cui la gente è solita lavorare, mi affido al fatto che esiste una memoria collettiva molto radicata. Nello stesso modo in cui si costruiscono le case, ognuno porta il proprio piccolo contributo che rende possibile il processo della costruzione.
Il mio contributo è la tecnologia.
Naturalmente ho un piano, ma durante la costruzione, l'edificio cambia; la forma cambia perché dipende da molte variabili: dalla disponibilità dei materiali, da quanta gente è disponibile, dal prezzo dei materiali 'moderni' come, per esempio, il ferro.
Le cose cambiano e noi dobbiamo essere capaci di farle stare insieme.
Prima di cominciare, non si conoscono i dettagli definitivi: man mano i dettagli si definiscono e l'edificio prende forma. Come nel modo tradizionale di costruire, l'edificio è un processo.
Come pensa sia possibile conciliare le tecniche tradizionali con l'architettura contemporanea?
È una questione molto importante: direi centrale. L'architettura tradizionale risponde al clima, in genere riguarda edifici di piccola scala e implica che tutti siano in grado di operare una qualche forma di manutenzione. Significa che, quando si pone la questione di riparare gli edifici dopo la stagione delle piogge, tutti sono in grado di affrontare autonomamente le riparazioni. Ma quando si incomincia a costruire "grande", questo diventa un problema.
Quello che mi propongo di fare nel mio lavoro è fare in modo che gli edifici durino di più sulla base dei sistemi costruttivi tradizionali, per esempio, trasformando l'argilla, sperimentando nuove mescole con il cemento, trovando soluzioni costruttive più adatte, costruendo fondamenta, usando laterite o mattoni in terra come materiale per i muri.
Sono tutte soluzioni accessibili.
Abbiamo la terra per fare i mattoni, basta scavarla.
La nostra grande risorsa è il lavoro. Molti africani emigrano in cerca di lavoro: dobbiamo cercare di tenerli a casa, insegnare loro il lavoro a casa propria, insegnando loro a usare materiali locali, i sistemi tradizionali ma anche nuove tecniche. Penso che dare valore alle tecniche di costruzione tradizionali, è il modo in cui possiamo tenere insieme la tradizione con la modernità. Da una parte, la tradizione, dall'altra, la tecnologia. Spesso, la tecnologia non è immediatamente accessibile perché, per apprenderla, è necessario accedere a un livello di istruzione superiore. E l'educazione è, spesso, in Europa. Questo è un fatto. È quello che è successo a me. Ho studiato a Berlino. Ora, quello che cerco di fare è agire da ponte. Sono tornato a casa e, insieme con la mia gente, cerchiamo di capire come combinare nuove tecnologie con il sapere della tradizione e i materiali locali, tenendo conto delle problematiche climatiche e economiche. Non siamo ricchi in termini di denaro: siamo ricchi perché siamo tanti e siamo affamati di conoscenza.
Ci parla del progetto del Woman Centre nel villaggio di Gando?
Le donne sono una parte cospicua del mio lavoro. Hanno fatto molto per me e continuano a farlo. Il progetto riguarda un centro dedicato alle donne del mio villaggio: è un sogno, ma anche una necessità. Bisogna tener conto che la maggior parte delle donne sopra i quindici anni è analfabeta.
Quando mi hanno chiesto di costruire un Centro per le Donne, ho pensato a un luogo dove le donne potessero imparare a migliorare il proprio stato, potessero apprendere a essere autonome economicamente anche attraverso progetti di micro-credito. Un luogo, quindi, dove potessero imparare a scrivere e a far di calcolo, ma anche apprendere tecnologie semplici come cucinare con meno legna, per preservare l'ambiente, oppure a trattare questioni legate all'igiene e al sistema sanitario, facendo formazione sulla nutrizione e la salute. A queste funzioni didattiche si aggiunge un deposito per la conservazione del raccolto, degli attrezzi e degli strumenti.
Durante lo scorso anno accademico sono stato a Venezia, alla facoltà di Architettura. Insieme agli studenti, ho avviato questo progetto con l'aiuto di Esther Giani: gli studenti si sono dedicati con grande passione e insieme abbiamo realizzato un modello di cui sono molto contento.
Le donne chiedono di imparare per avere una vita migliore. È quello che vogliono e questo Centro lo costruiremo con l'aiuto delle donne: passo dopo passo, lo possiamo fare.
Stiamo ancora cercando i fondi necessari: speriamo di trovarli perchè questo sogno si realizzi.
Sono le donne a sopportare il peso maggiore delle condizioni di povertà. Se gli uomini, quando le condizioni di vita peggiorano, possono muoversi e andare in cerca di lavoro in giro per il mondo, le donne rimangono al villaggio con i bambini. Dobbiamo incominciare da loro. Sono sicuro che, senza donne, non c'è futuro per l'Africa.
L'Architetto Diébédo Francis Kéré, parteciperà mercoledì 17 novembre 2010, ore 11.00 alla conferenza di presentazione del BSI Swiss Architectural Award 2010, all'Accademia di Architettura di Mendrisio