Una collezione di tavole inedite conservate presso la Fondazione Barragán testimonia le speranze e le paure di Luis Barragán per lo sviluppo futuro di Città del Messico. Testo di Federica Zanco. A cura di Joseph Grima

Macropolis
Federica Zanco

Per chi arrivi oggi, dal cielo, nel grande catino della Valle del Messico (Valle de México), la città appare come un’immensa, arida estensione di casette basse che sembra non finire mai, tanto lungo risulta il tempo di sorvolo fino alla manovra di discesa e atterraggio sulla pista dell’aeroporto Benito Juárez. Questo appare ormai incongruamente piazzato in posizione decisamente centrale rispetto ad una marea urbana che continua a crescere depositando la sua schiuma di cemento ben in alto sulle pendici delle montagne e dei vulcani che stringono l’ampia vallata.

Quando alla fine del 1925 il giovane Luis Barragán decide di lasciare la provinciale Guadalajara per trasferirsi nella capitale, la città ha poco meno di un milione di abitanti, che arrivano a un milione e mezzo verso il 1940 (raddoppiano nel 1950, passano a 5 milioni e mezzo nel 1960, a circa 9 nel 1970, a 14 nel 1980, a 15,6 nel 1995…). La crescente pressione demografica dei primi decenni del secolo non tarda a innescare un boom edilizio che gli procura i suoi primi incarichi e guadagni, in un crescendo di impegni professionali che nel ’32 gli fanno dichiarare: “Il vigore del centro mi seduce. La velocità con la quale le cose accadono, l’odore di nuovo, la sensazione di essere ‘veramente’ vivo” (testo autografo di Luis Barragán, datato 12 settembre 1932, pubblicato in: Antonio Riggen, Luis Barragán: Escritos y conversaciones, Madrid, 2000). La magnifica serie di tavole inedite conservate nell’archivio Barragán e parzialmente presentate per la prima volta nella mostra monografica organizzata in seguito all’acquisizione e catalogazione del fondo da parte della Barragan Foundation (“Luis Barragán: The Quiet Revolution”, Vitra Design Museum, giugno-ottobre 2000) non ha finora trovato una sua collocazione precisa in relazione a nessun progetto noto, né a una testimonianza certa da parte di amici o collaboratori.

In un mio colloquio del 1995 – purtroppo precoce, rispetto all’avanzamento dei lavori di ricerca su questo tema – con il signor Alejandro Margain Flores, collaboratore ventennale dello studio Barragán a partire dal maggio del 1949, questi menzionò vagamente dei disegni che l’architetto aveva fatto realizzare come sue visioni dello sviluppo di Città del Messico. Un fatto, questo, non inusuale per Barragán, il cui archivio testimonia della larghezza con la quale ha commissionato numerose copie di grandi stampe fotografiche di qualità, collage, tavole di presentazione e rendering, non sempre o non necessariamente in relazione a progetti da lui elaborati, ma talvolta dedicate a particolari dettagli naturali o architettonici evidentemente per lui interessanti o giudicati meritevoli di un miglior approfondimento. Sembra quindi probabile che, per l’affinità del tema rappresentato nelle diverse varianti, le belle tavole a colori datate 1960 e siglate da un certo ‘Léon’ facciano parte della riflessione le cui linee essenziali sono illustrate in un suo articolo pubblicato su El Zócalo del 12 ottobre 1959 intitolato “Come devono svilupparsi le grandi città moderne.

L’espansione di Città del Messico”. Si tratta di una risposta critica al tema della città verticale, cui Barragán oppone i vantaggi di un'espansione orizzontale, adottata a partire dall'analisi della situazione orografica di Città del Messico. Si tratta infatti di varie versioni di un paio di viste a volo d’uccello della Valle del Messico, ove spiccano in primo piano i vulcani che ne cingono il margine meridionale. Un primo disegno a china e pastello su carta semitrasparente (p. 67, in basso) mostra probabilmente il nucleo della città coloniale ricalcata sulla struttura dell’antica capitale azteca e le due principali vie di comunicazione rispettivamente verso Cholula-Puebla e verso il complesso monumentale di Teotihuacán. Una variante mostra l’antica zona lacustre, poi prosciugata dagli stessi spagnoli in diverse riprese fino allo sforzo definitivo che verso l’inizio del XVIII secolo libera definitivamente la città dalle ricorrenti inondazioni con il completamento di un sistema di canali sotterranei. Nei vivaci disegni a gesso su cartoncino, non discordi da una tradizione figurativa/cartografica che include grandi autori come Juan Gómez de Trasmonte, José Maria Velasco, Gerardo Murillo – noto come Dr. Atl – fino ai contemporanei Juan O’ Gorman e Jorge Covarrubias, le varie rappresentazioni sembrano riferirsi a diverse possibilità di espansione e sviluppo della città storica: si riconoscono la linea retta del gran canal, e la spirale del caracol, ovvero il principale sistema di approvvigionamento e trattamento delle acque della città (p. 64-65).

Mentre una versione mostra un’immagine verdeggiante dell’intera vallata, probabilmente basata su di una struttura capillare di canalizzazione e irrigazione, oltre che di espansione pianificata della zona urbanizzata attraverso una cintura di città giardino modellate sul quartire tipo di “Jardines del Pedregal”, l’altra mostra una vallata arida, ove un’espansione e una densificazione evidentemente fuori controllo invade ogni spazio disponibile sprecando preziose risorse idriche e ambientali (p. 67, in alto). Un ulteriore disegno di dettaglio, apparentemente dedicato alla zona di nuova espansione forse individuata nella parte sud della città – come fa pensare il disegno di uno stadio che assomiglia molto allo Stadio Olimpico realizzato nei pressi della Città Universitaria nel 1952 – potrebbe rappresentare una delle città satelliti auspicate da Barragán, completa nelle sue infrastrutture e separata da una zona industriale collocata in primo piano (pagina a fronte). Le ciminiere fumanti, in questo caso, non sembrano produrre il disastro annunciato in un ulteriore disegno, che rappresenta, con preoccupante precocità, la situazione oggi più o meno consueta nella conca di Città del Messico, in un normale giorno di assenza di vento. Ed effettivamente, se negli anni Cinquanta la visibilità era di circa 10 chilometri di distanza, negli anni Sessanta si riduceva a circa 4, per arrivare, oggi, a meno di 2.

La cappa giallastra che irrita occhi e polmoni, deposita polveri sottili e sostanze dannose per la salute, nascondendo alla vista il profilo nevoso dei vulcani circostanti e la limpida luce del cielo messicano, è purtroppo una costante con la quale ogni giorno milioni di residenti devono fare i conti. Le vivide rappresentazioni commissionate da Barragán ci ricordano che forse qualcosa si sarebbe potuto fare, magari guadagnando un anticipo di quasi mezzo secolo.

Federica Zanco (PhD), ex collaboratrice alla redazione di Domus, è dal 1994 impegnata in una ricerca sulle opere di Luis Barragán. Oggi dirige la Fondazione Barragán a Birsfelden, Svizzera.