L'esotismo architettonico al servizio dell'etnologia e del mercato dell'arte
Frédéric Edelmann
Ultimato assai precipitosamente, il Musée du quai Branly ha ricevuto un'accoglienza calorosa da parte del pubblico e dei media francesi; più che negativa, invece, dalla maggior parte dei giornali stranieri, specialmente quelli americani, tedeschi e spagnoli. La stampa francese, impegnata da tempo in un'operazione di comunicazione senza precedenti, nel suo complesso si è mostrata assai felice di potersi conformare ai consensi di prammatica dei maggiori canali televisivi nei confronti dei grandi eventi culturali ufficiali. In un paese tutto sommato stanco e privo di iniziativa, la nascita del museo è stata accolta con una benevolenza ben lontana dall'ammirazione stupefatta che aveva suscitato
L'Arche de la Défense, lo stupore distaccato di fronte alla Bibliothèque François Mitterrand, il fatalismo estetico dell'Opéra Bastille, la gioia lirica della Cité de la Musique o il rispetto compassato concesso al Grand Louvre. Le Monde non ha fatto eccezione: al punto che, senza arrivare a parlare di censura, si può pensare che sia stata la foga generale a portare i redattori a cancellare tutto ciò che avrebbe potuto conservare il tono ironico di quel che resta la matrice del presente articolo. Così, il titolo che avevo proposto, "L'esotismo al servizio dell'etnologia" – relativamente anodino, ma esplicito rispetto all'aspetto regressivo del progetto nel suo insieme – è stato sostituito con una sfilza di encomi, che fanno bella figura sulla carta, ma la cui voluta vacuità è stata a sua volta mascherata.
Pur nutrendo seri dubbi sul senso del museo, criticando (severamente) l'impronta ibrida che ispira la sua architettura, divertito dalla natura estetizzante di una museografia che sembra trovare le sue fonti di ispirazione contemporaneamente nel prototipo etnografico del Museo delle arti e tradizioni popolari (ora chiuso), le fiere di antiquariato e il museo Grévin, mi domando però da dove abbia origine la virulenza dogmatica di alcuni articoli. Il museo non era del tutto ultimato, in occasione della presentazione alla stampa, e non lo era nemmeno quando è stato inaugurato: ovvero la maggior parte delle sezioni non era ancora visibile. L'ambizione intellettuale del progetto non collima con la tendenza generale ad aderire, fino alla volgarità, ai colori o addirittura alle forme dell'haute couture, per lo più senza remore. E, peggio ancora, alcuni di quei critici si sono richiamati al "buon gusto", alle norme convenzionali, che si sarebbero fossilizzate ancora una volta, dopo il passaggio 'liberatorio' di Koolhaas, Gehry, Herzog & de Meuron... Una norma fluttuante, come le forme che da essa vengono legittimate, ma i cui confini sono rigidamente definiti dalla distribuzione annuale del Pritzker Price.
Edificio ibrido, composito, colorato, misterioso e gioioso, l'opera di Jean Nouvel si colloca effettivamente fuori dal tempo e dai canoni usuali dell'architettura contemporanea, come per sottrarsi (la tecnica, anche se superata, ha funzionato) alle reticenze, o addirittura ai rifiuti, che così spesso accompagnano le espressioni più radicali della modernità. L'architetto francese di maggior fama vuole forse sfuggire alla critica, diventando il Robert Hossein o il Luc Besson dell'architettura? I suoi ammiratori si rassicurino: anche in versione seducente e teatrale, Nouvel resta sempre Nouvel. Mettendo a frutto però un duplice movimento: da un lato, il pubblico si è abituato alla sua gestualità, al suo modo di trattare ogni progetto con un vocabolario nuovo e non teme più la radicalità dell'ideatore dell'Opéra di Lione, sapendo che è anche l'artefice della limpidezza del Centre d'art di Lucerna; dall'altro lato, l'architetto si è sbarazzato del suo gusto per la provocazione, o meglio, nel caso del Musée du quai Branly, l'ha rivestito di tutto ciò che costituisce il portato della nostra epoca: l'ecologia, gli spazi verdi, i giochi di luce, i materiali di volta in volta grezzi, o hi-tech, e così via.
Qui, a Parigi, il suo disegno finisce col dissolversi nel fascino delle savane tropicali e nell'atmosfera afosa delle foreste equatoriali, anche se, da un punto di vista geografico, l'obiettivo del museo è più ampio. Già al di là della Senna, il museo sfugge allo sguardo, e la sua immagine è (o sarà) smorzata dai filari di alberi del lungofiume e del viale; poi, da un grande schermo di vetro: una trovata che è piaciuta molto alla Fondation Cartier di Boulevard Raspail. Una seconda cortina di alberi, voluta nel giardino dal paesaggista Gilles Clément, renderà col tempo sempre più sfocata la vista dell'edificio. L'unica parte a filo con il viale, abitata già da due anni dai conservatori del museo e ricoperta da piante rampicanti, rafforza il potere magico dei vegetali nel camuffare l'edificio, come fa la vite o il glicine dell'Europa settentrionale.
L'edificio – dobbiamo rimproverarglielo? – risulta estremamente decorativo, come la scenografia di un teatro, che evoca l'atmosfera di tutta una pièce o di un'opera lirica. Ma, inserito com'è in una volta arborea artificiale, ha anche la qualità paradossale di recuperare un'estetica esotica, che evoca moltissimo il passato coloniale, e dunque risulta gravato da un notevole peso storico, mentre dovrebbe limitarsi a essere il ricettacolo di oggetti carichi di un loro simbolismo e portatori di certe funzioni, al di là delle loro dimensioni formali. Si può comprendere la volontà di riconciliare ( non fosse altro perché si è costretti a farlo) i supposti sostenitori dell'antropologia pura e i supposti fautori dell'estetica di per se stessa. Ma va osservato che l'operazione nasconde (a fatica) gli aspetti mercantili, classificabili, per quanto riguarda la storia, nel registro del pittoresco, e consacrati, attualmente, da una politica di donazioni variamente consenzienti. Nouvel, costretto a districarsi tra questi aspetti paradossali, maneggia, senza ritegno, dal punto di vista architettonico, ma con brio, dal punto di vista scenografico, una miriade di tecniche derivate dal mondo dello spettacolo e del museo fantasmagorico, che incantano il pubblico: schermi, riflessi, luci dirette e indirette, penombre... Fingendo, così, di lasciare il certo per l'incerto, Nouvel non è vittima inconsapevole delle sue scelte: conscio di dover rispondere a una domanda complessa e geograficamente eterogenea, ci consegna, sia per quanto riguarda l'interno che per quel che riguarda l'esterno, un progetto composito, in cui ogni parte conserva la propria autonomia visiva, ma che nell'insieme si rivela fittizio e forzato. Come, per esempio, le vetrate a nord, appesantite da motivi vegetali e perciò soggette a passare di moda quanto il motivo decorativo di una tela cerata.
En passant, si dedica al saccheggio affettuoso del paesaggio parigino, trafugando pezzi del lungo Senna – Palais de Chaillot compreso – a uso e consumo dell'immensa terrazza che costituisce la scelta architettonica del tetto, e incastrando addirittura l'ectoplasma della Tour Eiffel in una vetrina virtuale, o, in altre parole, in una banale finestra.
Una metafora in forma di giardino
Intervista a Gilles Clément di Manuel Orazi
Se c'è un pregio che accomuna i non molti giardini realizzati da Gilles Clément, è quello di sollevare domande. In ogni caso e in virtù dell'eterogeneità a volte contraddittoria che caratterizza parchi come l'André Citroën a Parigi, l'Île Derborence a Lille e il Domaine du Royal, Clément teorico e progettista non è facile da classificare (vedi Domus n. 890, pp. 56-63). Forse l'aspetto più affascinante della sua ricerca consiste nell'indagine della natura secondo principi autenticamente globali, al pari dei savant illuministi, quali Alexander von Humboldt – naturalista e viaggiatore come Clément. Concetti come Giardino planetario o Terzo paesaggio, attorno ai quali ruotano quasi tutte le sue opere dell'ultimo decennio, chiamano in causa l'umanità intera e presuppongono il movimento, come ha scritto Filippo De Pieri. (M.O.)
Manuel Orazi Qual è stata la ragione che ha spinto Jean Nouvel a coinvolgerla nel progetto del giardino del Musée de quai Branly? Se non sbaglio, in passato lei ha progettato dei parchi, ma mai un giardino per un edificio in particolare.
Gilles Clément Ho già avuto occasione di lavorare con Jean Nouvel per il concorso (perso) dell'Opéra di Pechino. Inoltre abbiamo lo stesso editore (Tonka) e Jean conosce un po' il mio lavoro. In passato, ho avuto occasione di lavorare su dei siti dove alcuni edifici di prestigio danno risalto allo spazio. È il caso dei giardini di Valloires, davanti alla grande abbazia cistercense; o i giardini di Bois, davanti al castello, o ancora, i giardini davanti all'Arche de la Défense.
Manuel Orazi Nel progetto di concorso del 1999 era previsto per il giardino un semplice e piatto campo di graminacee. Il progetto ha quindi subito un'evoluzione radicale, sia dal punto di vista altimetrico, sia da quello della varietà delle specie vegetali. Può spiegarci perché si è modificato così vivamente? In particolare che ruolo hanno avuto Nouvel ed Emma Blanc, responsabile interno della progettazione del giardino per l'atelier Nouvel?
Gilles Clément Né Emma Blanc – una mia ex studentessa – né Jean Nouvel hanno avuto alcun ruolo nella concezione del giardino. Ho dovuto modificare i rilievi, aumentandone le dimensioni, a causa di un'enorme cassa a tenuta stagna, molto rialzata, che circondava tutto il giardino ed era destinata a contenere il locale interrato per la raccolta delle piene centennali della Senna.
Manuel Orazi I dislivelli del suolo del giardino sono stati realizzati, oltre che con terreno di riporto, anche con dei pannelli di polistirolo. Credo che questa soluzione contrasti con i principi del suo Manifesto del Terzo Paesaggio. Si è trattato allora di un compromesso o semplicemente di un adattamento tecnico?
Gilles Clément Il cantiere di questo giardino, nel suo complesso, è in totale contraddizione con le mie idee personali. Ho dovuto accettare le scelte tecniche proposte per evitare un sovraccarico sulla soletta dei collettori di raccolta sotterranei.
Manuel Orazi Lungo il lato opposto alla Senna il suo giardino diventa uno stagno, arrivando a incorporare alcuni elementi architettonici come la ringhiera – che somiglia vagamente a un canneto – e dà l'impressione di non essere una vera barriera con l'esterno. Questa intenzione di apertura, se c'è, l'ho trovata invece coerente con i principi teorici del Manifesto, così come, sul lato lungo il quai, l'aver piantato le felci secondo una griglia a maglie larghe, in modo che in futuro vi possano attecchire piante vagabonde. È così?
Gilles Clément Sì, è esattamente come dice.
Manuel Orazi Nel suo libro Le jardin en mouvement (Sens & Tonka, 1994) il compito del giardiniere consiste nell'organizzare un frammento di qualcosa di più vasto. De Pieri ha notato in proposito che spesso l'insieme dei paesaggi possibili sembra bussare alla porta dei suoi giardini. A quai Branly ritiene di aver realizzato un frammento di quello che lei stesso chiama "mescolanza planetaria"?
Gilles Clément Il discorso che tengo a proposito del giardino del museo del quai Branly si riferisce a un certo aspetto del Giardino planetario: tema che avevo già affrontato nell'omonima mostra alla Villette, nel 1999-2000. Ciò riguarda la diversità culturale (non soltanto la diversità naturale) che trova analogamente le sue origini nel meccanismo d'isolamento geografico delle civiltà, le une in rapporto alle altre. Ciò che qui mi interessa è poter avvicinare l'attitudine rispettosa delle civiltà animiste verso gli esseri naturali, e l'attitudine moderna dell'ecologia che porta alle stesse necessità: proteggere il nostro ambiente e ogni essere che vi si trova. È per questo che ho utilizzato alcuni simboli – come la tartaruga, molto presente in tutte le società animiste – in modo tale da far capire chiaramente che questo giardino si lega al contenuto stesso del museo. Ho anche inserito nel terreno degli elementi di vetro, nei quali si possono intravvedere insetti, piante, conchiglie: tutti esseri rispettati nelle società animiste, essendo alcuni considerati elementi sacri, altri decorazioni per le cerimonie rituali, altri moneta di scambio.
Manuel Orazi Quanto tempo dovrà passare perché si possa giudicare compiutamente il suo giardino?
Gilles Clément Dovranno passare circa cinque anni, perché lo si possa capire; un secolo per ottenere un bel risultato con le grandi querce.
Manuel Orazi Lei ha viaggiato molto, dal Sudamerica all'Oceania, ovvero nei vastissimi territori da cui provengono i manufatti conservati nel nuovo museo. Pensa che l'impostazione concettualmente aperta del suo giardino possa costituire una metafora europea della circolazione delle culture materiali o artistiche?
Gilles Clément Secondo me, le culture nate dalle società animiste sono spirituali e non materiali. Il materialismo, che in Occidente è al suo apogeo, proviene da società che si sono staccate dalla natura, l'hanno censita, e poi mercificata. Per un indiano Yanomani, non si possono vendere l'aria, l'acqua, l'erba. Questo giardino vuole, quindi, valorizzare il pensiero animista e non quello di un Occidente cieco.
Manuel Orazi è uno storico dell'architettura.
Jean Nouvel. Musée du quai Branly
Dopo l'Institut du Monde Arabe e la Fondation Cartier, Jean Nouvel torna a Parigi: con un museo ibrido, teatrale ed esotico. Testo di Frédéric Edelmann. Intervista a Gilles Clément di Manuel Orazi. Fotografia di Paolo Rosselli. A cura di Rita Capezzuto
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- 28 agosto 2006