Più simile, a prima vista, ad un’entità aliena piuttosto che ad un attrattore urbano, l’ultimo progetto di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa altera radicalmente la tradizionale organizzazione di un museo, sacrificando la monumentalità in favore di una forte integrazione nel contesto urbano. Fotografia di Walter Niedermayr. A cura di Joseph Grima, Kayoko Ota
Solida trasparenza
Joseph Grima
Quando l’aspettativa per un incontro è alta, l’assenza di drammaticità può quasi trasformarsi in delusione. Nel visitare il Museo d’Arte Contemporanea del XXIo secolo, sono forse proprio la semplicità e l’assenza di stupore che l’edificio trasmette a rendere così difficile ricordare il momento esatto in cui si mette piede nell’edificio. Con i suoi cinque metri scarsi di altezza, la facciata dell’edificio è infatti tutt’altro che imponente: al contrario, si materializza davanti al visitatore solo all’ultimo momento, troppo tardi perché se ne conservi un ricordo duraturo. Il nostro corpo si confonde subito con le pareti di vetro che delimitano il perimetro dell’edificio e rendono sfumata la differenza tra interno ed esterno; e così si finisce per entrare nel complesso – un mondo labirintico, popolato da artisti vari, come Matthew Barney, Olafur Eliasson e Pippilotti Rist – senza quasi accorgersene.
Le vere ragioni di questa architettura, tuttavia, diventano chiare se solo si sale sul tetto dell’orrendo palazzo comunale -una grande costruzione per uffici degli anni Sessanta che fronteggia il museo dal lato sud- e si nota come quello che si ha davanti non sia infatti un singolo edificio, ma puttosto un pezzo di città: un mosaico di palazzi per uffici e case unifamiliari, di vicoli e piazze, verdi parchi e centri commerciali… ma tutto in scala ridotta, come si trattasse di un campione prelevato direttamente dal caotico tessuto urbano della città di Kanazawa. Ci torna in mente l’immagine delle dozzine di modelli allineati con cura su un tavolo; modelli prodotti dagli architetti per studiare tutte le possibili combinazioni per gli interni del museo. È un po’ come se con un gigantesco stampino per biscotti fossero state prelevate varie parti della città scelte a caso, tagliando, riproducendo e sperimentando ciascuna configurazione spaziale fino a raggiungere un equilibrio perfetto.
I condomini ospitano gli spazi espositivi, i corridoi di collegamento sono strade e vicoli che convergono in spazi aperti simili a piazze, una serie di corti aperte prende il posto dei parchi. Diventa improvvisamente chiaro che quest’ingannevole senso di continuità tra interno ed esterno è stato in verità congegnato con grande cura: i pannelli di vetro che segnano il punto di transizione diventano più una convenzione che una demarcazione, sono una linea in un diagramma, il luogo in cui la città vera termina per far posto alla città immaginaria inventata da SANAA. E per quanto sia risaputo che lo studio di SANAA produce per sua natura lavori programmaticamente schematici, la purezza della traduzione dal diagramma all’architettura è indubbiamente il segreto della vigorosa semplicità di questa costruzione. Situato nel mezzo di una grande piazza del centro di Kanazawa, il Museo d’Arte Contemporanea del XXI secolo è costruito su un sito occupato in precedenza da una scuola elementare; alcune strade che scorrono lungo i lati nord e sud impediscono agli edifici circostanti di usurparne il terreno, conferendo al complesso un senso di ariosità.
Il museo viene a riempire questo vuoto urbano con grande garbo, grazie anche al sottile disco del tetto che, sospeso ad appena quattro metri dal suolo, si fa garante di una scala a misura d’uomo. Per questo, il rapporto tra l’edificio e il passante è più simile a quello che possiamo avere col padiglione che incrociamo in un parco piuttosto che con le forme pervicacemente introverse di un tipico museo. Ma a colpirci è anche la permeabilità visiva dell’edificio: da più di un punto, allo sguardo è consentito di penetrare orizzontalmente nelle gallerie, poi giù lungo i corridoi e attraverso le corti, fino ad uscire dalla parte opposta – fatto di non poco rilievo per una costruzione la cui pianta ha un diametro di 112 metri. Guardando il museo dall’alto degli uffici comunali, è facile indovinare anche la chiave del rapporto che l’architetto ha voluto stabilire tra l’edificio e il circondario: ogni possibile direzione di avvicinamento, ogni punto di vista prospettico è accolto apertamente dalla facciata, perché in realtà la facciata è una sola – fatto che permette al museo di non dare le spalle a nessuno, di aprirsi all’area circostante in ogni direzione.
In pianta, l’edificio è l’esercizio di un pensiero rhizomatico: ogni effetto e ogni monumentalità risultano sacrificati per il bene della continuità nel rapporto con il contesto urbano del centro di Kanazawa, stabilito evitando gerarchie di alcun tipo. Non sorprende così di rilevare la presenza di solidi geometrici – cubi, cilindri e parallelepipedi – che spuntano dal disco che delinea l’orma del museo: sono proprio loro infatti a rappresentare i volumi su cui si basano le delicate geometrie del lavoro di SANAA. Ma il profilo dell’edificio, simile a una skyline urbana, è più che semplicemente scultoreo: l’iper-frammentazione delle gallerie in una gamma di spazi di varie misure e proporzioni, a ognuno dei quali è permesso sbucare dal disco e salire verso il cielo, è testimonianza di una precisa strategia definita insieme al curatore capo Yuko Hasegawa.
Anziché seguire le convenzioni, che avrebbero prescritto una configurazione basata su un paio di grandi spazi espositivi (ciascuno dei quali avrebbe potuto essere poi suddiviso usando pannelli divisori), gli architetti hanno optato per una moltitudine di spazi più piccoli, proporzionati individualmente in base ai singoli programmi espositivi. Le gallerie si mescolano perciò con la biblioteca, con la libreria, con il laboratorio didattico e la sala conferenze, senza che ne nascano gerarchie funzionali, ma anche senza lasciare spazio all’ambiguità. In questa profusione di piccoli e grandi spazi, nei quali le singole opere selezionate con cura sono libere di esprimere il loro pieno potenziale, esonerate dalla competizione con le altre dalle “zone-cuscinetto” dei corridoi, si respira infatti un senso di generosità: libero dalle costrizioni di un percorso predefinito lungo le collezioni, il visitatore vaga di galleria in galleria, lasciando ai vuoti che intercorrono tra gli spazi occupati dalle diverse opere il compito di sgombrargli la mente, un po’ come lo zenzero che rinnova il palato tra le portate della cucina giapponese.
Questa tipologia di organizzazione spaziale, nella quale gli elementi programmatici sono oggetti distribuiti su un campo (è inevitabile il confronto con la pittura di Malevich) è fondamentalmente diversa da quella sperimentata in un altro dei progetti più recenti di SANAA, il complesso dell’Almere Stadstheater. In quest’ultimo, la negazione della gerarchia è spinta ancora più in là: qualsiasi tradizionale forma di differenziazione nelle proporzioni è scardinata, persino tra spazi espositivi e zone di circolazione, dando origine a un progetto di stampo ‘mondrianiano’, nel quale risulta impossibile distinguere a priori un ufficio da un corridoio, o uno studio da un atrio. Nel Museo d’Arte Contemporanea del XXIo secolo, al contrario, l’esperienza spaziale è definita per mezzo di una limpida interazione tra solidi e vuoti, che produce una alternanza tra corridoi dalle proporzioni intime e spazi espositivi di dimensioni tali da indurre all’agorafobia.
Ma il modo in cui è articolata questa capillare rete di corridoi è legato anche ad aspetti prettamente organizzativi. Il museo comprende infatti due parti: una serie di spazi destinati al pubblico, facilmente accessibili a tutti, e la collezione principale, visibile solo a pagamento. Strutture come la libreria, la biblioteca, la sala conferenze e la caffetteria sono disposte intorno al perimetro del disco, mentre le opere principali – delle collezioni permanenti o delle mostre temporanee – occupano la parte centrale dell’edificio; grandi porte a pannello in acrilico, poste alle estremità dei corridoi, possono essere usate per suddividere lo spazio e limitare l’accesso o per modulare il flusso intorno al nucleo centrale. In questo modo, le numerose trasformazioni che possono risultare dalla modifica delle sue componenti distributive permettono al museo di adattarsi a una moltitudine di configurazioni spaziali senza dover far ricorso ai tradizionali pannelli divisori temporanei.
E, soprattutto, le pareti trasparenti assolvono al loro scopo senza compromettere la permeabilità visiva dell’edificio, quella fondamentale relazione tra interno ed esterno che in fondo ne definisce la sua identità. SANAA, lo studio capeggiato da Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, è spesso considerato parte della quarta generazione del modernismo giapponese del dopoguerra; una generazione guidata dal desiderio di abbracciare il contesto tecnologico per sviluppare una posizione individuale attraverso una ricerca continua. Al pari di numerosi progetti precedenti, come il Park Café di Koga, il Museo d’arte contemporanea del XXIo secolo si appropria creativamente di molti degli strumenti spaziali e architettonici del modernismo, per spingerli poi fino al loro limite tecnico: sottilissime pareti portanti d’acciaio, piloti sproporzionatamente esili, una guaina in pannelli di vetro laminato della misura massima possibile senza far ricorso a telai o putrelle. Contemporaneamente, però, SANAA riesce a realizzare edifici a misura d’uomo e dall’aspetto delicato, a metà tra rappresentazione astratta e figurativa. Infinitamente più perfetto del caotico tessuto urbano circostante, il museo appartiene tuttavia – giù fino al minimo dettaglio – al complesso e frammentario contesto della città giapponese.
Tre sedute di SANAA
Francesca Picchi
Le sedie, le panche, gli sgabelli che punteggiano l’architettura del museo sono il segno tangibile dell’invito alle persone a fermarsi e sostare. Nel caso della SANAA Chair, concepita in occasione del progetto per il Park Café di Furukawa del 1998, il profilo della sua forma, costruita con solidi e sottili dischi di lamiera d’acciaio e tondini di ferro, riflette una forte chiarezza formale, come se di fronte all’immagine ‘tradizionale’ di una normale sedia a quattro gambe la mano del progettista si fosse fermata semplicemente a ricalcare il disegno della sua anima. Le altre sedute sono state concepite per l’occasione. Nella Rocking Chair il confronto è con un’icona del moderno e del pensiero organico: la sedia in compensato curvato. Il disegno dell’oggetto pare voler inglobare a sé l’opera di Michael Lin che fuoriesce dalla parete per continuare sulla superficie delle sedie stesse, e cercare una fusione con l’ambiente. Il movimento a dondolo introduce poi una insolita forma di percezione dinamica indipendente dal normale atto del camminare lungo le sale. All’esterno è disposta una infilata di posti a sedere (Drop): atolli argentati sospesi su sottili gambe in tondino d’acciaio. Il cielo si riflette sulla superficie concava della seduta quasi a formalizzare l’invito a fermarsi e prendere il sole mentre il museo, di fronte, si anima di presenze.
21st Century Museum of Contemporary Art
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- 10 gennaio 2005