Quest’estate Peter Eisenman ha ricevuto per il suo settantesimo compleanno una lettera manoscritta di auguri dal Cancelliere tedesco e un biglietto da Re Juan Carlos di Spagna. Da chi l’ho saputo? Da lui, nel corso di una conferenza stampa organizzata a Venezia per presentare il suo progetto del grandioso Centro Culturale di Santiago de Compostela, evento che ha richiamato almeno tre squadre televisive e il Ministro della Cultura della Galizia. Eisenman naturalmente è considerato un grande in Germania, dove ha realizzato l’imponente monumento commemorativo dell’Olocausto a Berlino, silenzioso campo di monoliti di cemento vicino alla Porta di Brandeburgo.
Insieme a Peter Kulka, sta pianificando le infrastrutture per la candidatura della Germania alle prossime Olimpiadi raggiungibili, eppure ancora più grande è considerato in Spagna. Il progetto di Compostela ha comportato lo scavo di un’intera collina, per far posto a un complesso delle dimensioni del Lincoln Centre di New York, formato da un teatro lirico, un museo e una biblioteca.
Un progetto così sarebbe molto ambizioso ovunque, ma in una città di soli 250.000 abitanti può sembrare addirittura presuntuoso. Eisenman però non ha citato la lettera ricevuta da Schroeder per farci sapere che i tedeschi pensano che sia un fatto importante. Questa citazione rispecchiava, piuttosto che la sua presunzione, una certa vulnerabilità. Quando gli hanno chiesto che cosa stesse costruendo in America, è sceso il silenzio: George W. Bush non solo non gli aveva mandato nessun biglietto di auguri per il compleanno, ma neppure ha mai sentito parlare di lui.
Tutti gli architetti, da Frank Gehry a David Chipperfield, perfino – anche se sembra incredibile – Norman Foster, si irritano quando non gli viene riconosciuto ciò che a loro avviso gli spetta sul piano professionale. Anche se oggi Eisenman sta lavorando a molti e importanti progetti, come in nessun altro momento della sua carriera, si avverte ancora in lui una certa insicurezza, che è quasi commovente.
Forse nasce dalla preoccupazione di non avere da parte, nel suo studio-loft di Manhattan, decisamente poco chic, riserve di cibo sufficienti a far fronte a eventuali tempi duri e, tutto sommato, di non possedere ancora una posizione consolidata e di tutto riposo, per una figura di rilievo come la sua.
Tempi duri Eisenman certamente ne ha avuti in passato, per non parlare di alcuni giudizi non proprio benevoli, come quando rientrò in America, nel 1963, dopo avere trascorso a Cambridge un periodo post-laurea. C’è stato poi l’affare dell’Institute of Architectural and Urban Studies, che egli contribuì a creare nel 1967, chiuso improvvisamente per mancanza di denaro; c’è stata la sospensione delle pubblicazioni di ‘Oppositions’, la rivista da lui diretta per circa dieci anni.
Persino le straordinarie case dei suoi inizi, che negli anni Sessanta gli diedero fama e lo fecero entrare nel gruppo dei celebri New York Five, lasciarono una scia di clienti insoddisfatti, che protestavano dopo essere rimasti prima abbagliati da Eisenman e poi sconcertati dal suo rifiuto di “avere a che fare con le loro questioni di privacy coniugale”, come ha detto ironicamente una volta.
Per ragioni che a distanza di tempo sono difficili da comprendere fino in fondo, i New York Five, i cosiddetti whites che Ken Frampton presentò al Museum of Modern Art, sembrarono allora il fenomeno culturale più importante che si fosse verificato in USA dal tempo dell’Espressionismo astratto: un misto di audacia da nuovo mondo e di credibilità intellettuale da vecchio mondo. Oggi non si capisce bene come ci sia potuto essere un terreno comune fra Michael Graves e Richard Meier o fra Charles Gwathmey e John Hejduk, o ancora fra Peter Eisenman e gli altri, eccetto appunto il compianto Hejduk.
Eppure allora venivano presentati come il supergruppo. In particolare Eisenman – con la sua aria un po’ da dandy, papillon e bretelle – nelle fotografie del tempo era onnipresente, come Andy Warhol. Più seriamente, rappresentava un collegamento fondamentale fra la sensibilità americana e quella europea.
Oggi i New York Five gettano ancora un’ombra lunga. Quest’autunno, tre dei quattro superstiti si sono rimessi insieme per partecipare al concorso per l’area delle torri gemelle. Come qualsiasi altro superstite degli anni Sessanta che si rispetti, avevano bisogno di un nuovo ‘battitore’.
Ed ecco che Steven Holl è entrato al posto di Michael Graves, colpevole non di qualche strana dipendenza, naturalmente, ma di un cattivo post-modernismo. Che Steven Holl si sia schierato a fianco di Eisenman è una dimostrazione del fatto che Eisenman è ancora importante, probabilmente più di prima. Ha dedicato tutta la sua carriera all’idea che l’architettura è un’attività tanto intellettuale quanto materiale, e in questo momento della sua vita è chiamato a una nuova sfida: costruire edifici che siano al tempo stesso ‘intellettuali’ e materiali.
George Bush non saprà ancora il suo nome, ma le cose potrebbero cambiare se, nel concorso per Ground Zero, Eisenman venisse fuori con un’idea straordinaria, come quella che formulò per il New York Times: una parete di grattacieli disegnata in modo da sembrare sul punto di implodere. Ma Eisenman non può rammaricarsi che non ci siano anche gli squarci.