Barcellona celebra i centocinquant’anni della nascita di Antoni Gaudí. Oscar Tusquets Blanca parla del suo straordinario genio di architetto, del suo amore per il kitsch, e critica le più recenti ‘conversioni’ al culto gaudiano
Fotografia di Phil Sayer
Alla ricorrenza del centenario della nascita di Gaudí, avevo dieci anni. Vivevo a Barcellona, ma non ho memoria di celebrazioni particolari, che in teoria dovrebbero aver avuto luogo. Ero solo un bambino, ma ricordo con chiarezza molti dettagli della mia infanzia: per esempio la strada che facevo ogni mattina per andare a scuola, passando dalla stazione ferroviaria Sarriá in Calle Provenza. Mi fermavo a guardare un edificio strano, scuro, dalle linee ondulate e sinuose: mi faceva un po’ paura ma anche mi affascinava. C’era sempre una coppia di coloratissimi pappagalli cacatua, che si crogiolava al sole su quella balconata dalla bizzarra balaustra con la base di vetro: la gente si fermava e faceva ridicoli versi nel vano tentativo di provocare una risposta. A quell’età non avrei mai immaginato che sarei diventato architetto, che avrei osservato certi edifici con particolare piacere, che avrei fatto schizzi e vinto premi per i miei disegni alla Scuola di architettura; ma se ci fossero stati un fermento e un movimento come quelli cui assistiamo quest’anno, l’avrei sicuramente notato e me ne ricorderei. Come ricordo che circa due anni dopo l’Opera di Bayreuth venne al Liceu di Barcellona e per due settimane rappresentò il Parsifal, Tristano e Isotta e La Valchiria: ho ancora negli occhi la città tappezzata di ritratti di Wagner.
Non riesco a ricordare niente di simile per il centenario della nascita di Gaudí, il più grande architetto del Ventesimo secolo. Probabilmente fu celebrata una messa da requiem nella cattedrale della Sagrada Familia, il Tempio Espiatorio da cui emanava quell’alone di santità sacrificale che il maestro non riuscì mai a scrollarsi di dosso. E ci fu un omaggio da parte di Le Corbusier, uno dei pochi architetti del tempo capace di riconoscere il valore di Gaudí, al di sopra e al di là delle mode passeggere.
Anni dopo, quando cominciai a studiare architettura, ben poco era cambiato nell’atteggiamento verso Gaudí. In quella che è la più autorevole storia dell’architettura moderna, Giedion data la nascita del modernismo alla fine del XIX secolo, ma menziona appena Gaudí. Carlo Flores, il grande storico dell’architettura spagnola, lo considerava un bravo scultore più che un architetto. Poi cambiò decisamente idea, tanto che la sua incondizionata ammirazione per Gaudí arrivò a comprendere anche Jujol, l’unico seguace del maestro che sia riuscito ad assorbire un po’ della sua geniale follia. Oggi ogni architetto che si rispetti, in ogni parte del mondo, esprime venerazione per il grande catalano, ma io non posso fare a meno di guardare con qualche sospetto ad alcune di queste opportunistiche “dichiarazioni di fede”. È come se un sostenitore della purezza e della linearità dell’arte astratta dichiarasse il proprio entusiasmo per Velázquez. Non sono sicuro che gli crederei.
L’intervista di Montserrat Roig al grande musicista Federic Mompou, trasmessa parecchi anni fa alla televisione catalana, fu per me una rivelazione. Montserrat gli chiese se fosse vero che non amava Beethoven né Schubert né Brahms. Mompou rispose senza batter ciglio: “Senta, signorina, lei è un’appassionata di musica e quindi le possono piacere tutti i periodi e tutti gli stili. Io invece sono un compositore e devo fare la musica, devo comporre musica mia. Non mi può piacere tutto, e in particolare c’è un secolo per il quale non ho il minimo interesse.
Peccato che Beethoven, Schubert, Schumann e molti altri illustri musicisti appartengano proprio a quel secolo, ma non è colpa mia. Io ne sono fuori”. Parole che dovrebbero essere scritte a caratteri d’oro sopra la testa di ogni creatore. E che certamente si addicono alla visione del mondo di Gaudí.
In questo momento, in cui assistiamo alla reale e metaforica ‘santificazione’ di Gaudí, non sarà male ammettere che egli ben difficilmente può essere definito una personalità d’avanguardia: cioè una personalità capace di spingere altri in avanti, a continuare la sua strada, come Mies van der Rohe per esempio. Al pari di Picasso, Gaudí non ha aperto nuove strade: le ha anzi chiuse definitivamente. Ricordiamoci che mentre Gaudí si misurava con una delle sue opere più geniali, La Pedrera, Frank Lloyd Wright costruiva la Robie House e gli uffici Larkin, e ne realizzava l’arredamento impiegando lamiere metalliche.
Neanche con un grande sforzo di fantasia si può considerare La Pedrera un preludio o un presentimento dell’architettura a venire. Convinti che un’opera d’arte possa dirsi riuscita nella misura in cui è in anticipo rispetto al suo tempo, molti critici hanno insistito nell’affermare che questo edificio – che non ha muri portanti o scale grandiose, ma conta sull’ascensore come principale forma di accesso – è un’opera che guarda avanti: ma non possiamo passar sopra alle sue evidenti contraddizioni strutturali. Esili pilastri di ferro reggono colonne di pietra. La facciata non è portante, come i curtain wall che verranno dopo, ma è composta da blocchi di pietra spessi e pesanti che nascondono la struttura di metallo non trattato. È una facciata così forzata dal punto di vista strutturale che sembra che Gaudí abbia previsto l’arrivo del cemento armato, come con i suoi mobili sembra aver previsto l’arrivo delle materie plastiche. Ciò che veramente gli interessava era riuscire a evocare le pieghe del manto della Vergine che doveva coronare l’edificio (nella versione dettata dalla sua coscienza di devoto) o le onde sensuali della chioma e le curve del corpo di una donna (nella versione dettata dal suo inconscio peccatore).
Quando si riconoscerà, una volta per tutte, il grande contenuto erotico delle opere di quest’uomo ora avviato alla beatificazione? Non è strano come può sembrare: San Giovanni della Croce e Teresa d’Ávila sono un precedente illustre. In ogni caso, lasciando da parte questi aspetti più trascendenti, se mai c’è stata un’architettura fondata sulla qualità assoluta dell’esecuzione artigianale, cioè all’estremo opposto della standardizzazione e dell’industrializzazione sostenute dal Bauhaus, questa è l’architettura di Gaudí.
Gaudí non ha fondato una scuola. Non ha indicato il percorso dell’architettura a venire. Non ci ha lasciato soluzioni né metodi razionali. È impossibile da copiare e persino da seguire. La sua eredità sta nella sua enorme ambizione artistica, nella sua costante messa in discussione delle soluzioni comuni e consolidate, nel suo sforzo continuo di arrivare un gradino più su, nella sua convinzione che anche il minimo elemento architettonico possa essere più logico e coerente, più espressivo, più ricco, più decorativo e meno convenzionale. Un pilastro può essere diverso da quello che si immagina debba essere. Per Gaudí un pilastro si può torcere in spirale, può essere decorato con rilievi strani che ricordano le incrostazioni fossili, può essere colorato con un mosaico contenente frammenti di vetro piuttosto kitsch, può essere inclinato per assorbire spinte non verticali (e raggiungere così una maggiore espressività), può essere storto per formare colonne doriche oblique (come i pilastri esterni dell’esplanade ipostila del Parco Güell). Gli eccessi della ragione producono oggetti surreali.
Si può ben capire il fascino esercitato da Gaudí su un architetto come Enric Miralles; eppure verso la fine della sua carriera, brillante e purtroppo breve, Miralles soffrì di un grande disinganno e si domandò ad alta voce come si possa parlare di riuscita strutturale per la cripta della Colonia Güell, che ha uno spazio di soli sette metri fra un pilastro e l’altro – distanza che si può coprire impiegando una qualsiasi trave di quelle che si trovano in commercio – o per il muro di contenimento del Parco Güell, che Gaudí costruì prima di procedere al riempimento con la terra. E si può ben capire l’attrazione provata da Le Corbusier per le geometrie gaudiane e per la costruzione a capanna usata come scuola sul terreno della Sagrada Familia, o l’entusiasmo manifestato da Kenzo Tange e da altri architetti giapponesi e, più a proposito, da Frank Gehry. Si può anche capire l’influenza dei mobili di Gaudí su certe sedie di Carlo Mollino, di Vico Magistretti o di Ross Lovegrove, sui gioielli di Elsa Peretti e su tanti designer catalani contemporanei.
E tuttavia come può un architetto che risolve le maniglie con un prisma a sezione rettangolare arrivare ad amare quelle della Pedrera, fatte per la mano di chi le deve impugnare? Fatte in modo così perfetto da far pensare che il maestro non le abbia disegnate prima, ma le abbia modellate sulle sue stesse dita, riproducendo poi in lucido ottone il movimento della mano di chi in futuro le avrebbe usate. Come può un architetto che risolve le sedie con forme geometriche minimaliste arrivare ad amare la sedia Calvet, sinuosa e avvolgente, pronta a stringere chi si siederà in un abbraccio peccaminoso? Come può un architetto che risolve il rapporto interno/esterno con nude lastre di vetro arrivare ad amare la galleria incredibilmente complessa della facciata posteriore del Palau Güell, con le sue schermature e i suoi filtri multipli, i telai delle finestre rivestiti di ferro, ceramica e legno, le file di persiane sfalsate, le veneziane a fisarmonica azionate dall’interno mediante meccanismi a molla, la panca concava sostenuta da un assurdo aggetto e i tre pilastri interni (espressione della facciata ma anche filtri per la luce), dal momento che si tratta di elementi tutti strutturalmente superflui?
Se questo magico gioco, volto a mitigare il tremendo sole del mezzogiorno mediterraneo, suscita in lui tanta passione, perché allora questo architetto tanto moderno e aggiornato non tenta di reinterpretarlo nei suoi progetti, sempre così semplificatori e simili l’uno all’altro, non importa se realizzati in Europa centrale, in Nord-America o nel deserto? Suvvia, cari minimalisti, svizzeri, tedeschi, olandesi o di qualsiasi altro paese; architetti che pretendete che le vostre case siano fotografate assolutamente nude, prima che i clienti le contaminino con i loro mobili, quadri, cimeli di famiglia e soprammobili; artisti puristi che cercate il volume unico (il parallelepipedo), il materiale unico (il vetro), il colore unico (bianco o alluminio). Basta! Fatevi pure pubblicare su tutte le riviste, salite tutti i gradini della scala universitaria, vincete tutti i concorsi più importanti, ma non venite a dire che andate pazzi per Gaudí!
Salvador Dalí ripeteva sempre, specialmente in presenza di grandi personalità francesi, che l’arte moderna francese non sarebbe arrivata da nessuna parte senza gli artisti spagnoli. “Quale peso avrebbe potuto avere senza Juan Gris, senza Picasso, senza Miró e senza il Divino Dalí? Sarebbe ancora là, appesantita da quel grave fardello dell’arte francese che è il bon goût”.
È vero che la grande arte, l’arte che colpisce nel profondo, è tale soltanto se contiene un tocco di cattivo gusto? Gaudí sembra confermare questa teoria. Come l’opera di molti grandi artisti, da Murillo a Wagner, anche quella di Gaudí spesso rasenta il kitsch. Perciò non deve sorprendere la costante ammirazione per Gaudí, anche nei periodi di maggiore disgrazia, da parte di Dalí, il più illustre e appassionato sostenitore del cattivo gusto. Una volta Dalí mi parlò di un incontro con Le Corbusier. A un certo punto, durante la cena, Le Corbusier spiegò che gli interessava molto sapere come i grandi artisti surrealisti immaginassero l’architettura del futuro. Senza esitare, Dalí rispose: “L’architettura del futuro sarà come le opere del grande Gaudí: morbida e soffice”.
Gaudí non faceva un’arte per bambini, anche se a volte vi andò sfacciatamente vicino. La lucertola multicolore sui gradini del Parco Güell non è forse la sublimazione, geniale quanto si vuole, delle decorazioni che si trovano sulle finte rocce e i laghetti di tanti giardinetti dietro casa? Le sculture sulla facciata della Passione della Sagrada Familia, realizzate a grandezza naturale con stampi, non sono una scusabile digressione del maestro: no, sono puro Gaudí. Il quale era un artista capace di disegnare le incredibili finiture astratte delle sue prime guglie, così incredibili che per realizzarle fu necessario ripeterle identiche le une sulle altre, anche se questo contravveniva al suo desiderio che ognuna fosse unica.
Eppure Gaudí era anche l’artista che non si peritava di usare uno stampo per creare l’asinello dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme; l’artista che pensò di coronare il magnifico paesaggio scultoreo della terrazza della Pedrera con una figura della Vergine piuttosto fantasiosa, alta parecchi piani. Gaudí era così. Solo la sua straordinaria creatività gli permetteva di uscire incolume da idee così pazze e in certi casi di gusto assai dubbio.
L’opera di Gaudí è l’ideale per indurci a condividere l’affermazione di Dalí che la genialità è inevitabilmente in contrasto con il buon gusto, quanto meno con l’idea di buon gusto che prevaleva a quel tempo. Forse è vero che ogni lavoro innovativo o geniale non può evitare di andare contro il gusto dominante. Questo assioma è stato usato per spiegare l’ostracismo e l’insuccesso nella vita di tutti i giorni che tanti grandi artisti hanno sofferto, dagli impressionisti a Van Gogh e altri. Il problema sorge quando, arrivati a questa convinzione, prendiamo in mano un libro su Velázquez, Vermeer o Leonardo, e scopriamo che per loro non fu così. È difficile credere che il loro buon gusto sia stato messo in discussione, anche dai loro contemporanei.
E allora che male ci sarebbe ad accettare che nel corso della storia ci siano stati artisti geniali che avevano cattivo gusto e altri, altrettanto geniali, che avevano invece un gusto squisito: e che, nonostante la sua probabile canonizzazione, Gaudí appartenesse al primo gruppo?
L’anno Gaudí
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- 06 maggio 2002