Innovativo e controcorrente lo è da sempre. Da quando, nel 1977, Karim Aga Khan - 49mo capo spirituale degli Ismailiti e diretto discendente del profeta Maometto - decise di fondare un premio con l’obiettivo di fare comprendere e apprezzare la cultura islamica attraverso l’architettura. Da allora, il suo "Award for Architecture" è stato assegnato ogni tre anni a un totale di 75 progetti (mentre altri 6mila sono stati analizzati e schedati), suddivisi in sette edizioni. E controcorrente, questo riconoscimento lo è ancora di più nella scottante attualità degli ultimi mesi, quando parlare di Islam non fa certo pensare alla cultura architettonica.

Promuovere le abilità artigiane locali, studiare soluzioni sostenibili, stimolare l’armonia sociale o portare linfa alla vita di un villaggio o di una città. Sono questi i valori su cui punta il premio d'architettura definito il più "generoso" del mondo - il suo valore è di 500mila dollari contro i "soli" 100mila dollari del Pritzker Prize - giunto quest'anno all'ottava edizione.

Ed è proprio per rispondere a questi valori che tra i premiati il 6 novembre - la cerimonia ufficiale si è tenuta nella cittadella di Aleppo in Siria - sono stati scelti (tra i 427 lavori presentati) nove progetti apparentemente diversi tra loro, ma legati da un unico filo: il progetto come chiave per migliorare le condizioni di vita tra comunità diverse nella società mussulmana.

Dai programmi di recupero e sviluppo urbano e rurale in Iran e Marocco a un complesso scolastico in Guinea, dal Museo Nubiano in Egitto all’SOS Children’s Village in Giordania, per approdare a un centro sociale in Turchia, a un parco di 30 ettari in Iran e a un hotel in Malaysia. Premio alla carriera (Chairman’s Award) per l’architetto cingalese Geoffrey Bawa, la cui opera è stata definita "una miscela sottile di modernità e tradizione, Est e Ovest, formale e pittoresco".

Il meccanismo che governa il premio è semplice: ogni tre anni è nominato un comitato di "osservatori" internazionale (Steering Committee) - nel 2001 ne hanno fatto parte, tra gli altri, Kenneth Frampton, Zaha Hadid e Frank Gehry - che seleziona e segnala i progetti (nel senso più vasto del termine che comprende anche restauro, riuso, urbanistica, edilizia pubblica e privata), realizzati tra il 1988 e il 2000 e utilizzati, almeno in parte, da una comunità islamica. Alla giuria (Master Jury), formata da nove personalità - nel corso degli anni si sono alternati, Giancarlo De Carlo, Kenzo Tange, James Stirling, Charles Moore, Hans Hollein, Fumihiko Maki, Peter Eisenman, Charles Jencks, Alvaro Siza e Arata Isozaki - spetta invece il compito di valutare e scegliere i progetti vincitori.

Una curiosità: testimone della prima "tornata" del premio nel 1980, unica rivista europea, era Domus che al più "umile" tra i premiati, il muratore egiziano Aladdin Moustafa, dedicò la copertina e l'editoriale di dicembre. L’allora direttore Alessandro Mendini gli si rivolge in una "lettera aperta": "Tu sei solo un muratore egiziano, ma in questo caso possiedi la maestria del lavoro manuale e ricordi la giusta lentezza del tempo... Tu sei un virtuoso maestro di cupole, archi, volte, colonne, minareti, ricami e griglie di pietra, e lo stesso Hassan Fathy (il più grande architetto di quell'architettura islamica moderna che quasi non esiste) ha lavorato insieme a te" (Domus 612/1980).

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