Degradata, malfamata, famigerata. Sono alcuni degli aggettivi che nel corso dei decenni si sono appiccicati addosso al Mandrione, la via che a Roma accolse gli sfollati dopo i bombardamenti di San Lorenzo del 1943, per poi trasformarsi in un assembramento di baracche appoggiato agli archi dell’Acquedotto Felice. Un’area di emarginazione nel mezzo della città della Dolce Vita, a cui Pasolini dedicò parte degli Scritti Corsari e che affascinò Moravia, Rossellini, Parise e parte dell’intellighenzia della capitale, la più varia e articolata. Dal 2018, la via del Mandrione, che congiunge il Pigneto con la via Tuscolana, è chiusa al traffico perché a rischio voragine. Proprio da qui è ripartito dopo il lockdown Orizzontale: il collettivo di architetti con base a Roma aveva preso parte al Diario con cui Domus raccontava l’abitare durante la quarantena, tra inizio marzo e metà maggio di quest’anno, quando il Covid-19 ci aveva costretto tra le mura di casa e lo spazio pubblico era diventato, improvvisamente, ostile. Ora, insieme al designer Teo Sandigliano e alla fotografa Camilla Ferrari, Orizzontale prolunga idealmente quell’esperienza con un nuovo progetto nel solco di quanto già fatto: una staffetta creativa resa possibile dalla tecnologia, che è stata grande e preziosa protagonista del lockdown. La vita privata e lavorativa non sarebbe stata la stessa senza il supporto dei computer, che sono stati per mesi le nostre uniche vere finestre sul mondo. Il nuovo HP Envy 15, un laptop pensato principalmente per chi è creativo di professione, per un mese è passato di mano in mano, risalendo l’Italia – e di volta in volta opportunamente sanificato. Passando da Orizzontale a Teo a Camilla, l’HP Envy è il fil rouge che lega l’opera dei tre creativi, chiamati a reimmaginare la città del futuro trovando stimoli e spunti nei lavori di chi li ha preceduti, ed elaborandoli in base alla propria creatività e professionalità in progetti individuali, i quali uno accanto all’altro, a staffetta completata, compongono una visionaria sinfonia del nostro domani.
Lo spazio pubblico come “ginnasio”
Dopo la balconanza che il collettivo romano ha raccontato nel Diario, in “Postumi di una balconanza”, Giuseppe Grant e Juan Lopez Cano di Orizzontale raccontano la discesa al livello del suolo, nello spazio pubblico, dopo la sospensione della normalità causata dal lockdown, dopo la sbornia ideale della vita asserragliata nello spazio privato. E lo scenario deputato per l’osservazione di Orizzontale del post-lockdown è appunto il Mandrione, un luogo vicino, “vicino a studio, vicino a casa”, e – dal 2018, con la chiusura al traffico – “un corridoio pedonale e ciclabile in grado di competere con le immagini idilliache di progetti costruiti dalle società avanzate del tanto adulato nord Europa”. Al tempo stesso, uno dei tanti spazi vergini – “o come si direbbe adesso selvaggi” – che Roma offre. E si riparte da due domande poste durante il lockdown, che assurgono quasi a punti programmatici, ovvero la possibilità di riconquistare gli spazi a disposizione per la relazione e le attività conviviali, e al ruolo di arte, musica, cinema e teatro come strumento per rafforzare il rapporto di vicinanza del quartiere. Al centro, c’è la concezione dello spazio pubblico come ginnasio, spiega Giuseppe Grant di Orizzontale, ovvero come “luogo del benessere, della cultura, delle relazioni”. Perché per Orizzontale lo spazio pubblico è, fondamentalmente, una risorsa produttiva.
Una cena, vengono buttate giù un po’ di idee, nascono una bozza, un timone. Dalla balconanza a oggi, il lavoro di Orizzontale sul tema dello spazio pubblico post pandemico, del futuro imminente delle nostre città, non si era mai fermato, con conferenze e pubblicazioni, questo progetto ne è un reflusso e quasi un sigillo. Sull’Hp Envy 15 viene abbozzata una scaletta su Word, si comincia a lavorare sulla mappa – “una psicomappa”, precisa Giuseppe Grant – con Illustrator, con tutta la comodità di poterla disegnare direttamente sullo schermo touch del portatile. Il computer, in studio, viene anche usato per la musica. Nasce dunque un racconto a quadri, che prende avvio all’inizio della fase 2, quando “siamo usciti per strada alla ricerca dei nostri presunti affetti”, e dal Sogno di Shakespeare, passando attraverso la convivialità della esquinita peruviana e l’analessi negli spazi liminari della stazione quarantena, per approdare al risveglio del more is less, l’approccio proposto da Orizzontale che, invertendo i fattori del celebre mantra minimalista di Van De Rohe, è una presa di coscienza che “rappresenta quello che facciamo noi, amplificare il poco che abbiamo”, spiega Grant. Perché la città post-coronavirus, secondo Orizzontale, non è poi così diversa da quella che c’era prima, insomma “tutto è cambiato, ma forse niente è cambiato”. I problemi sono gli stessi, semplicemente magari nessuno prima ci pensava; la pandemia ha ricentrato le nostre esistenze, “ha fatto ragionare sui tempi e la qualità del lavoro”.
Lo smart working, la nuova modalità di lavoro svolto da remoto, spesso in solitudine, ci ha riportati così a casa e riavvicinato a quello che sotto casa c’è, alla dimensione di quartiere, “quella che conforma la qualità della tua vita”, spiega Orizzontale: la mobilità, il verde, i servizi facilmente accessibili sono i punti cruciali con cui l’identità locale entra in interazione con il sistema città, e con cui la solitudine dello smart worker si disperde nel “ginnasio” dello spazio pubblico; costruirlo significa accogliere le persone, in quello che secondo il collettivo di architetti dovrebbe essere un circolo virtuoso che porti dal benessere alla qualità dello spazio, e da lì al benessere ancora. Laddove c’era la balconanza, che è stato un momento particolarissimo, ora c’è la quartieranza: l’orizzonte del nostro futuro metropolitano? La via del Mandrione, nella sua ennesima vita, rinasce come simbolo di qualcosa che la trascende, ovvero degli esseri umani che cercano il bene per sé nel luogo pubblico, riconquistandolo all’immaginario di degrado e pericolo che si è imposta durante il lockdown.
Un borgo agricolo in centro città
Da Roma, l’HP Envy 15 vola a Milano con il suo prezioso contenuto, il lavoro di Orizzontale sui postumi della balconanza, per una nuova tappa della staffetta. Incontro il designer Teo Sandigliano in quella che at large si indica come zona Porta Romana, ai tavoli di una ex cascina addossata alla circonvallazione, abbandonata per decenni, oggi rinata come ristorante, bar, foresteria, sono tanti gli studenti e i lavoratori che spendono qui il loro tempo davanti a un computer, tra un caffè e uno spuntino, circondati da piante, in un contesto, anche qui, che a prima vista richiama più certi contesti nordeuropei che l’Italia. E in qualche modo, inconsapevolmente rispetto alla nostra scelta di vederci proprio qui, questo luogo appare come una eco del progetto elaborato da Sandigliano per la staffetta: la cascina racconta di un passato in cui qui “era tutta campagna”, e la provocazione del designer è, perché non tornare a esserlo?
La sua riflessione, mi racconta Teo, nasce da quella di Orizzontale, quando il collettivo si interroga riguardo a come lo spazio pubblico, distorto durante il lockdown in teatro del contagio, possa rinascere come luogo del benessere. E dall’esplorazione e dalla reimmaginazione, anche per lui, di un contesto che gli è familiare, perché da un paio di anni ci abita, ovvero la zona che dall’arco di Porta Romana si sviluppa fuori dal vecchio tracciato delle mura spagnole, riprogettando tutta l’area attraverso l’agricoltura. Sandigliano ha lavorato allo stesso tempo su foto, immagini e testo sull’HP Envy – “oltre allo schermo touch, ho trovato molto comoda la tastiera”, dice Sandigliano, aggiungendo di avere apprezzato anche la capacità del computer di gestire più applicazioni aperte allo stesso tempo.
Il designer, classe 1992, aveva contribuito al Diario con Urban Factory, un progetto speculativo che immaginava cosa potrebbe succedere in città se venisse reintrodotta la coltivazione del grano. Teo, che è originario di Biella, piccolo capoluogo ai piedi delle Alpi piemontesi, racconta di avere sempre avuto il pollice verde, ma come “passione della domenica”, la definisce lui, e solo recentemente ha pensato di introdurre il giardinaggio come elemento protagonista nel suo lavoro di progettista. Mi racconta di come per lui la natura sia il punto di ispirazione per riattivare i vuoti della città, mentre a Milano, spesso, l’uso del verde e la sua introduzione in progetti architettonici sembra quasi frutto di un piano marketing, un corollario estetico da città della moda che rivaluta l’elemento floreale, quasi che le piante fossero una stuccatura ipercontemporanea e non, come per lui, il vettore di un pensiero integrato che riporti, funzionalmente, la natura in uno spazio urbano veramente sostenibile. Il designer cita a paragone l’esempio di quella frutta perfetta a vedersi, di forme regolari e con bucce dai colori splendenti, che poi però non è buona e per niente nutriente.
“Dobbiamo ripensare al benessere e qui a Milano si potrebbero attuare molte soluzioni”, afferma Sandigliano, ed eccoci virtualmente all’ingresso del Borgo di Porta Romana, di cui il designer ha creato alcuni scorci, ridisegnando con l’HP Envy direttamente su foto scattate durante la sua esplorazione del quartiere, per mostrare, come spiega lui stesso, “come riattivare i vuoti”, quelli che Marc Augé definisce non luoghi. Ne è nato un progetto speculativo, “ma fattibile”, in cui le coltivazioni vengono riportate nel tessuto urbano, “perché forse la soluzione ce l’abbiamo già davanti agli occhi”: 50mila metri quadri da dedicare all’agricoltura, con orti e mercati, e il chiosco di Giannasi, polleria e rosticceria diventata un’icona cittadina, trasformato in area verde, con i polli che razzolano in libertà sull’erba proprio lì di fronte. Uno spicchio di città del futuro dove i legami tra i cittadini si riallacciano attraverso rapporti e attività. Una città del futuro con uno stile di vita più sostenibile.
La danza dei non luoghi
“Quello che più mi spaventa è la possibilità che questa distanza si protragga anche quando l’emergenza sarà finita”, mi confidava la fotografa Camilla Ferrari via whatsapp verso fine marzo, commentando il video con cui aveva contribuito al Diario, interamente realizzato in casa. Camilla ne aveva solcato la soglia per realizzare un assignment, dopo una quarantena che durava dall’inizio del mese. Aveva visitato il centro di Milano, deserto, i tram in fila con nessuno a bordo, come fantasmi. In un mondo che era diventato improvvisamente ostile, a lei viaggiatrice per passione e necessità, la riscoperta di casa era sembrata un passaggio quasi obbligato e fotografarla una ricerca di conforto. Al tempo stesso, alla quarantena associava forti significati simbolici, in controtendenza con la nostra quotidianità, veri e propri valori: la vicinanza fisica e la lentezza, da sempre soprattutto quest’ultima una condizione del suo modo di lavorare.
Sono cambiate tante cose, da marzo. Anche nella vita di Camilla. Mi mostra sul cellulare un appartamento, un ampio monolocale, con una bella luce che lo illumina, poco lontano da dove ci incontriamo. È la sua terza casa dalla pandemia a oggi. Abituata a viaggiare metà dell’anno, Camilla non ha un suo Mandrione o una sua Porta Romana. Per questa staffetta creativa, ha ripreso da Teo Sandigliano l’accenno all’arcipelago dei non luoghi dove spesso transitiamo e ha deciso di esplorarlo, innescando la sua ricerca con una frase di Orizzontale: “tutto è cambiato, ma forse niente è cambiato”. Ha passato gli ultimi giorni tra stazioni della metropolitana e centri commerciali, nei luoghi in cui “tutti sono nello stesso posto, nessuno è nello stesso posto”, dice lei, una vertigine di alienazione resa ancora più forte dall’ubiquità delle mascherine, che coprono i volti, ci rendono tutti anonimi. Le sue dita passeggiano tra tastiera e display touch con l’eleganza dell’antilope mentre mi mostra, direttamente sullo schermo dell’HP Envy , riorganizzando in tempo reale blocchetti di girato sulla griglia colorata di Premiere, lo scheletro del video a cui sta lavorando, “forse il video più lungo che io abbia mai montato”, commenta con un lieve sorriso. Tre minuti da vivere e rivivere a volume altissimo, in un loop in cui immagini in movimento e suoni si accostano e sovrappongono, una coreografia esplosa di rimandi e dettagli. Un finale che è anche l’inizio.
Di una precedente conversazione con Camilla, mi era rimasta soprattutto una parola: “prossemica”, ovvero la scienza che studia lo spazio o le distanze come fatto comunicativo. Nel teatro dei non luoghi, le figure che lei cattura per pochi secondi sono protagoniste di una danza inaspettata, fatta di lunghe attese e passaggi frettolosi di gruppi di persone “che sono nuvole, passano e vanno”, ma anche di quei piccoli gesti con cui gli esseri umani tornano a parlarsi, a contattarsi, ad avvicinarsi, a sentirsi e farsi sentire. È la prossemica nuova del distanziamento sociale, degli esseri umani che ricominciano a comunicare non solo con le parole, o su Zoom, come hanno fatto per mesi: con chi ami come con gli sconosciuti. “Mi è sembrato di essere una telecamera di sorveglianza emotiva”, dice lei.
Nell’ affollamento dei centri commerciali – “un affollamento che non mi aspettavo”, osserva –, in questi luoghi che sono tutto il contrario della “quartieranza”, Camilla riscopre soprattutto l’umanità, conditio sine qua non per l’esistenza della città, e distilla in un video fatto di luci e soprattutto di suoni una partitura di emotività, di relazioni, che si reinstaura sulla placca opaca dell’alienazione, nelle nuove distanze imposte dalla pandemia. E all’orizzonte si rivede nascere l’opportunità di un nuovo futuro per le città. Città che prima attraversavamo con noncuranza, città che muoiono e rinascono per gli esseri umani e per chi le abita, città dove tutto è cambiato senza cambiare e dove, tuttavia, “non si ferma, la nostra danza”.
La versione integrale del video di Camilla Ferrari per la staffetta creativa. Si consiglia di guardarlo più volte, in sequenza, al massimo volume possibile.