Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1032, febbraio 2019
Il centro socio-culturale autogestito ADM (Amsterdamse Droggdok Maatschappij), una delle ultime comunità indipendenti di Amsterdam, formata da un centinaio di persone di età e nazio- nalità diverse, è stato evacuato il 7 gennaio 2019. Aveva sede in un cantiere dismesso dall’Amster- dam Drydock Company, occupato per la prima volta nel 1987 e successivamente nel 1997. Nel corso degli anni, i suoi abitanti avevano dato vita a un’organizzazione sociale e spaziale in continua crescita, formata da habitat biodiversificati con dozzine di strutture autocostruite che ospitavano abitazioni e laboratori, esperimenti di permacultura e una miriade di eventi culturali.
Sebbene in Olanda il divieto di squatting sia entrato in vigore nel 2010, la pratica, popolare fin dagli anni Sessanta, è continuata in tutto il Paese, anche se su scala limitata. Nel caso dell’ADM, dal 2015 i membri della comunità hanno combattuto nelle sedi legali per cercare d’impedire lo sfratto ma, nonostante gli sforzi di sette avvocati, delle numerose persone e delle organizzazioni che hanno sostenuto la loro battaglia attraverso più di 20 processi giudiziari, l’ultima sentenza dell’estate 2018 ha portato allo sfratto dell’intera comunità. In questo caso, il diritto alla proprietà ha prevalso sui diritti umani e sulla protezione dell’ambiente, e ciò è avvenuto nonostante le diverse indagini per corruzione di cui sono stati oggetto i proprietari del sito. L’amministrazione cittadina, tuttavia, ha assegnato ai residenti un nuovo terreno (“de slibvelden”) ad Amsterdam Nord, dove la maggior parte di loro si è trasferita.
Con lo sfratto di ADM, Amsterdam perde anche uno dei complessi architettonici più rappresentativi di quei progetti abitativi radicali e visionari che, in passato, la città sembrava in grado di realizzare. Da anni ormai sotto la pressione di una spietata speculazione immo- biliare, la maggior parte dei suoi residenti ora fatica a trovare soluzioni abitative accessibili, nonostante le iniziative delle cooperative e di alcune agenzie pubbliche. In un contesto così poco incoraggiante, le architetture degli squatter esprimono ancora strategie di sovversione dei modelli e delle politiche abitative orientati al mercato, che guidano in modo incontrastato lo sviluppo delle città.
Le strategie spaziali e legali utilizzate dagli squatter per appropriarsi del tessuto urbano ricordano come altre modalità urbane e domestiche, altre forme di vita comunitaria slegate dal mercato siano ancora possibili e praticabili. E l’argomento sostenuto dagli abusivi, secondo i quali il diritto della gente a una casa sopravanza il diritto di proprietà, sembra oggi particolarmente pressante.
Purtroppo i dibattiti tra urbanisti, studiosi e amministratori pubblici sul tema degli alloggi a prezzi accessibili e delle crescenti barriere alla parità di accesso all’abitazione nelle città, troppo spesso non si occupano di riconsidera- re il concetto di spazio inutilizzato e di mette- re in discussione la nozione di proprietà. Nel frattempo, anziché una forma di solidarietà, la condivisione di spazi domestici non occupati è diventata sinonimo di scambio monetario con la grande impresa, mentre il coworking/coliving è un mantra associato di frequente alla costruzione di complessi residenziali di alta gamma. Designer, operatori immobiliari e società anti-squat si appropriano sempre più spesso delle tipologie architettoniche e delle strategie di occupazione temporanea di spazi disabitati, del sistema di riutilizzo di materiali e dell’estetica sviluppati dal movimento squatter, commercializzandoli dopo averli epurati dei loro ideali originali.
L’architettura nel settore abitativo è una for- ma privilegiata d’investimento e di deposito di capitali, anziché un diritto della popolazione. Oggetto di operazioni speculative completamente integrate nelle politiche neoliberiste di sviluppo urbano, la maggior parte dei progetti e delle politiche abitative contemporanee se- gue le logiche del mercato ed evidenzia le forme di precarietà e disuguaglianza nei processi di accesso e nell’accumulo di capitale tra la popolazione: disuguaglianze che perpetuano secoli di violenza nei confronti degli esclusi e degli oppressi attraverso piani generali e strategie progettuali mirate, dei quali è complice anche la comunità architettonica.
Abitando in forma collettiva spazi precedentemente inutilizzati e immaginando modelli alternativi di famiglia e proprietà, il movimento squatter ha creato infrastrutture di solidarietà domestica. In tutto il Paese, gli squatter hanno aperto spazi per abitazioni multigenerazionali e diversificate per quanti sostengono forme di vita collettiva, non hanno accesso a una casa o non dispongono nemmeno di una forma legale di residenza. Attraverso l’appropriazione e il mantenimento di strutture, queste comunità hanno progettato modelli per un’architettura accogliente, inclusiva e accessibile con valore culturale, e persino siti per una coesistenza tra specie diverse.
(Ernesto Nathan Rogers, 1966)
Nonostante il divieto, e purtroppo a differenza del caso dell’ADM, nei Paesi Bassi numerosi spazi occupati hanno acquisito lo status legale. Sebbene i loro postulati radicali abbiano dovuto adattarsi ad approcci più normativi, il retaggio spaziale del movimento squatter offre ancora alternative al rinnovamento urbano neoliberista e alle politi- che di sfruttamento. La sopravvivenza di questi spazi comunitari aveva anche permesso la conservazione di strutture storiche e d’importanti forme di conoscenza sociale, culturale e politica generate al loro interno: strutture e conoscenze che, senza l’intervento e il mantenimento degli occupanti, sarebbero ormai da tempo scomparse. Lo sfratto e la demolizione di ADM è quindi un segno dell’urgente necessità di combattere in nome di una politica urbana più sensata.
L’appello per il riconoscimento delle pratiche spaziali del movimento squatter all’interno delle narrative dell’architettura e delle sue piattaforme operative mira a stimolare un dibattito su come i progetti architettonici potrebbero mediare tra spazio inutilizzato, proprietà e diritto alla casa. L’appello viene fatto riconoscendo la fragilità di queste comunità e affermando, al di là di questa fragilità, la necessità di limitare attentamente i processi di appropriazione istituzionale. Tuttavia, dando dignità e proteggendo pratiche spaziali e conoscenze culturali e politiche generalmente precarie, non legate alla firma di un autore e spesso denunciate come illegali, invitiamo anche gli architetti a battersi e a progettare il terreno per possibilità politiche alternative. Per azioni che diano vita a una città in cui l’abitazione non sia una merce.