Osservando la storia dell’ambiente costruito, l’architettura moderna mi appare come un’entità prodotta da una fiorente era di funzionalismo generata dall’avvento della macchina. Come hanno finora dimostrato i diversi sviluppi dell’architettura, non c’è un’unica definizione per la funzione di una struttura. Per me, lo scopo degli edifici è accogliere e proteggere – un fatto immutato dagli albori della civiltà. Sono anche però importanti come veicolo d’interazione con l’ambiente naturale. In altre parole, la funzione dell’architettura è quella di farci sperimentare una risonanza somatica con il respiro ritmico e le trasformazioni della natura.
Manifestazioni di questa qualità si possono trovare in tutto il canone del patrimonio architettonico. Come per esempio nello shakkei o “paesaggio in prestito” dei giardini e delle strutture tradizionali giapponesi. Facendo sì che la natura permei il confine tra interno ed esterno, e incorniciandolo con elementi costruttivi come la hisashi (grondaia) e le engawa (verande), si ottengono una profondità illimitata e un collegamento con l’ambiente. I giardini giapponesi si basano su processi naturali incontrollati, mentre quelli geometrici dell’Europa occidentale esprimono una forte volontà di costruire ambienti artificiali. In Giappone è opinione comune che la natura non sia oggettivata e controllata dell’uomo: è considerata un universo che abbraccia tutto, anche l’umanità. Le differenze nella percezione della natura a livello sociale sono radicate nel fudo (clima) e hanno prodotto diverse culture architettoniche.
Cosa si può dire, allora, del legame tra architettura e natura quando l’atto stesso di costruire è responsabile della distruzione dell’ambiente? L’architettura è in grado di comprendere il ruolo della natura?
Nello scorso secolo, l’evoluzione dell’architettura ha stemperato le caratteristiche culturali idiosincratiche dei Paesi, ma ha anche favorito la sofisticazione estetica e tecnica di tipologie costruttive più complesse, che dialogano ingegnosamente con la natura: pareti decorate da luci e ombre, corridoi che riecheggiano il vento, spazi che articolano terreni modulabili, superfici d’acqua riflettenti che uniscono interno ed esterno. La natura astratta — aria, acqua, terra, luce — o gli elementi naturali come la pioggia, la neve, il cielo, il mare, i boschi e le montagne, aumentano il potere dell’architettura di formare spazi tangibili.
La crescita esponenziale della civiltà ha distorto il rapporto tra mondo artificiale e naturale. Cosa si può dire, allora, del legame tra architettura e natura quando l’atto stesso di costruire è responsabile della distruzione dell’ambiente? L’architettura è in grado di comprendere il ruolo della natura? Come sostengono molti antropologi, finché gli esseri umani vivranno sulla Terra la “natura vergine” rimarrà un’illusione. Ora più che mai, credo che l’umanità debba valutare con grande cura i cicli naturali e saperci coesistere. Se vogliamo sopravvivere, problemi ambientali come il cambiamento climatico e l’inquinamento degli oceani da microplastiche vanno affrontati con urgenza. In questo contesto, l’architettura alimenta un dialogo incessante con il battito cardiaco della natura e lo esprime nello spazio costruito, illustrando così il suo esplicito ruolo di veicolo per comunicare con l’ambiente. Finché viviamo insieme sulla Terra, dobbiamo riesaminare la nostra percezione della natura come base dello spazio costruito e riconsiderare lo spirito di simbiosi che pervade l’intero universo.
Immagine di apertura: la chiesa di San Giorgio, scavata nelle colline rocciose di tufo vulcanico di Lalibela, in Etiopia. Foto J. Countess / Getty Images