Vivere l’architettura, attraversare una serie di spazi con una luce particolare, il riflesso di una parete tirata a lucido, le increspature della luce del sole proiettate su un soffitto da uno specchio d’acqua sono esperienze uniche che solo l’architettura sa offrire. L’architettura può riportarci ai fondamentali dell’esistenza. Dopo anni di pandemia, sentiamo di nuovo la necessità di interrogarci sulle nostre interazioni sociali e sulla nostra natura di esseri esperienziali. Costretti per tre anni a comunicare attraverso schermi piatti, abbiamo sentito la mancanza delle esperienze fisiche.
Nel suo libro Scorched Earth: Beyond the Digital Age to a Post-Capitalist World (2022), il filosofo Jonathan Crary scrive: “La verità è inconfutabile: non c’è nulla di rivoluzionario sui social media”. La sua energica critica si era già espressa in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi, 2015), in cui esplora i problemi del consumismo sostenuto dalla tecnologia digitale che ci bombarda 24 ore su 24 con “conseguenze rovinose... erodendo forme di comunità e di espressione politica e danneggiando il tessuto della vita quotidiana”. Sia che cammini sotto le foglie dorate degli alberi di gingko lungo Morton Street, nel West Village di New York, o che sieda dentro un capanno rivestito di cartone catramato ad ammirare le ninfee del Round Lake a Rhinebeck, la mia vita quotidiana è piena di gioia legata a esperienze tangibili.
L’architettura può riportarci ai fondamentali dell’esistenza.
Nel libro del 1994 Questions of Perception: Phenomenology of Architecture (pubblicato per la prima volta da A+U, Tokyo, e poi ripubblicato da William Stout, San Francisco), con Juhani Pallasmaa, Alberto Pérez-Gómez abbiamo cercato di sostenere una “fenomenologia dell’architettura”. I titoli dei capitoli fanno riferimento a tipi diversi di esperienza fisica: “Fusione percettiva: miscelare oggetto e campo”; “Spazio prospettico: percezione incompleta”; “Del colore”; “Di luce e ombra”; “Spazialità della notte”; “Durata temporale e percezione”; “Acqua: una lente fenomenale”; “Del suono”; “Dettagli: il regno aptico”; “Scala, proporzioni e percezione”; “Condizioni in loco e idea”. Le esperienze profonde nell’urbanistica e nell’architettura trascendono l’ascesa e il declino degli stili. Dopo l’euforia prodotta dal manifesto Verso una Architettura di Le Corbusier (1927) e dalla mostra seminale sullo Stile Internazionale “Modern Architecture: International Exhibition”, curata da Philip Johnson ed Henry-Russel Hitchcock e presentata al MoMA nel 1932, l’espansione ottimistica di alcune caratteristiche – colore bianco, tetto piatto, precisa espressione strutturale, grandi superfici vetrate con cornici di acciaio, piante libere e finestre a nastro – ha dominato l’architettura in Europa e in America.
Il successo di pubblico della mostra del Festival of Britain del 1951 anticipò il periodo delle forme grezze e dirette del Brutalismo, definizione usata da Reyner Banham e Alison e Peter Smithson per descrivere l’estetica del cemento e dei mattoni a vista. Dominante verso la fine degli anni Sessanta, il Brutalismo è stato soppiantato dal Postmodernismo, introdotto da Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi e da L’Architettura della città di Aldo Rossi, entrambi del 1966. Il testo di Rossi, che ha ridimensionato l’importanza del modo in cui gli edifici modellano lo spazio urbano e le strade, rimane oggi criticamente rilevante per quanto riguarda il focus sulla densificazione delle città e il ripristino dei paesaggi naturali.
Il movimento postmoderno è stato messo in ombra dalla mostra del MoMA “Deconstructivist Architecture”, 1988, curata da Philip Johnson e Mark Wigley. Incentrata su geometrie contorte e deformate e su ambiziose linee diagonali, mirava a contrastare l’eclettismo storicista del postmoderno, ma oggi viene criticata per la sua evoluzione corporate da Peter Eisenman e Bernard Tschumi, membri originari del gruppo deconstruttivista. Le strategie parametriche impiegate di recente dagli studi commerciali tendono a produrre effetti grotteschi, ponendo scarsa attenzione alla modellazione degli spazi pubblici, alla scala umana e a come vengono vissuti gli interni.
Invece di uno ‘stile’, nel mio Anchoring (1989) indico l’unicità di ogni sito, contesto e clima come punto di partenza dell’architettura. Un concetto limitato: un’idea come forza trainante di ogni progetto. Sostengo che “l’architettura non si intromette in un paesaggio, ma serve a spiegarlo”, che “l’architettura e il sito dovrebbero avere un legame esperienziale, metafisico, un legame poetico” e che “se consideriamo l’ordine (l’idea) come percezione esterna e i fenomeni (l’esperienza) come percezione interna, allora in una costruzione fisica, la percezione esterna e quella interna sono intrecciate”. In Anchoring, il punto era portare l’universale nello specifico, l’assoluto nel relativo.
L’architettura non si intromette in un paesaggio, ma serve a spiegarlo.
Questions of Perception ha veicolato il nostro pensiero in termini più generali. Invece di concentrarsi su singoli progetti guidati da idee, ha presentato uno scenario generale. L’undicesimo delineato nel volume, “Zone fenomenali”, si applica alla maggior parte dell’architettura; “Fusione percettiva: miscelare oggetto e campo” sostiene che sperimentiamo l’architettura in visioni parziali che si uniscono a quelle in primo piano, in secondo piano e in lontananza. “Acqua: una lente fenomenale” esplora il potere dell’acqua nell’esperienza percettiva. Tra le altre sezioni, “Del colore”, “Di luce e ombra” e “Scala, proporzioni e percezione” inquadrano le esperienze fenomeniche dell’architettura. La luce e l’ombra in un gruppo di vasi e bottiglie sono state ripetutamente esplorate da Giorgio Morandi, che ha catturato un’intensità di percezione che trascende gli stili.
Nel 1993, all’inaugurazione del Museo Morandi a Bologna, il filosofo Umberto Eco disse: “Bisogna amare il mondo e le cose che sono nel mondo, anche le più umili, la luce e l’ombra che le allieta o le rattrista, e la stessa polvere che le soffoca. Morandi raggiunge l’apice della sua spiritualità come poeta della materia”. Seeing is Forgetting the Name of the Thing One Sees è un importante testo di Lawrence Weschler del 1982 sull’opera dell’artista Robert Irwin, incentrato sulle questioni della percezione. Irwin, 94 anni, per oltre 60 anni anni ha esplorato i limiti dell’arte, tanto da scrivere che “Il soggetto puro dell’arte è la percezione umana”.
In questo numero di Domus, i progetti di architettura, urbanistica, arte e design sono presentati come “questioni di percezione”.