Marcel Breuer e Norman Foster non sono gli unici architetti innamorati della bicicletta, tuttavia entrambi hanno messo a frutto questa loro passione in modo più diretto di molti altri. Breuer comprò la sua prima bicicletta, una Adler, a 23 anni, e imparò a pedalare sulle strade di Dessau, dove aveva da poco assunto la direzione del laboratorio di falegnameria del Bauhaus.
Cresciuto nei sobborghi di Manchester, Foster ebbe la sua prima bici da corsa nel 1949, all’età di 14 anni, assemblandola con i migliori componenti che poteva permettersi e, dopo aver rimosso tutti i marchi visibili, scelse una finitura color argento. La Adler di Breuer fece da ispirazione per la sua poltrona Wassily – o B3, come era stata originariamente chiamata – ma anche per la sedia a sbalzo Cesca e per il tavolo Laccio. Anni dopo, Breuer riferì a un impiegato della Knoll, incaricato di stilare la storia dell’azienda, una conversazione avuta con un amico architetto a Dessau nel 1925, poco dopo aver iniziato ad andare in bicicletta.
A Breuer sembrava che la bici, la cui forma non era sostanzialmente cambiata in 20 o 30 anni, rappresentasse il prodotto ideale. L’amico gli chiedeva se avesse mai visto come venivano fabbricate le varie parti, come si curvavano i manubri – “Ti interesserebbe, disse, perché piegano quei tubi d’acciaio come fossero spaghetti” – e Breuer rispose che la cosa lo aveva effettivamente colpito, tanto da farlo pensare di usare tubi d’acciaio piegati per farne dei telai: “Probabilmente è un materiale che si potrebbe usare per una sedia elastica e trasparente, in genere sono molto interessato alla trasparenza della forma.
Foster ha una prospettiva ottimista di quel che il mondo potrebbe essere se il design e l’architettura trovassero un’applicazione efficace.
Nel 1989, Norman Foster scrisse Handrails and Bicycles, un saggio in cui rifletteva sul processo di costante miglioramento del design delle biciclette, sull’effetto di nuove forme di collegamento tra bici e ciclista e sull’impatto che nuovi materiali come la fibra di carbonio avrebbero presto avuto. Foster descrisse la sostituzione delle vecchie cinghiette di cuoio, che bloccavano i piedi ai pedali attraverso un laborioso processo di regolazione, con un sistema istantaneo di inserimento, definendolo “una combinazione immensamente soddisfacente sia dal punto di vista fisico sia da quello estetico”. Ne spiegò poi la sua rilevanza per l’architettura: “Riesco a provare una soddisfazione simile nel processo di progettazione architettonica quando, per esempio, il vecchio ordine di sistemi separati che si usano per sostenere un edificio e per renderlo termicamente confortevole viene sostituito da un sistema di maggiore semplicità”
Quasi un secolo dopo l’acquisto della Adler da parte di Breuer, la Cervelo di Foster, appositamente costruita per lui in Canada – una bici dal peso di appena 900 grammi, meno di un computer portatile Apple – sarebbe diventata il punto di partenza per un’altra serie di mobili, la famiglia di tavoli Cosmos. Sia Breuer sia Foster hanno adottato un approccio imprenditoriale per trasformare le loro idee in prodotti finiti. Breuer iniziò suggerendo alla Adler di diversificare l’attività dalle biciclette e di produrre una serie di mobili di sua progettazione. Quando l’idea fu respinta, Breuer decise di realizzare il proprio prototipo di sedia: ordinò direttamente a Mannesmann dei tubi di acciaio estruso di 2 cm di diametro piegati in base alle sue specifiche, e assunse poi un idraulico per saldarli. Le tecniche di calcolo e di modellazione hanno fatto progressi tali da rendere possibili forme molto più complesse di quelle ottenute il secolo scorso.
La Cervelo utilizza tubi in fibra di carbonio con un elevato rapporto peso/resistenza. A differenza della vecchia Adler, il profilo della sezione trasversale del tubo è variabile in lunghezza, concentrando il materiale dove necessario per aumentare la resistenza. Foster era sufficientemente incuriosito dal potenziale della fibra di carbonio da voler provare a usarla per realizzare un tavolo. Con la consulenza del centro nazionale spagnolo di ricerca sui compositi che lavora per Airbus, un team della Norman Foster Foundation di Madrid ha realizzato un prototipo nell’ambito del programma di ricerca sui materiali. Il risultato è stato un profilo ultrasottile che pesa solo 5 kg, ma è in grado di sostenere un carico fino a 400 kg. A differenza di molti progetti di mobili in fibra di carbonio, che utilizzano il materiale in fogli o come guscio, Cosmos ha una struttura tubolare.
I prototipi sono stati collocati negli spazi di lavoro della fondazione e hanno attirato l’attenzione di Tecno, l’azienda che produce il sistema di tavoli e scrivanie Nomos, e che ha proposto una versione in alluminio e acciaio, altrettanto performante e più adatta alla produzione in serie. Sia Breuer sia Foster si collocano su una linea di demarcazione apparentemente sottile, ma in realtà piuttosto netta, tra architettura e design: Foster ha colmato il divario tra le due discipline lavorando, oltre che come architetto, con la sensibilità di un designer. Fin dall’inizio della sua carriera, ha praticato l’architettura con un non comune spirito di collaborazione coinvolgendo specialisti di discipline diverse.
Tra le sue prime fotografie, una delle più memorabili lo ritrae insieme a Buckminster Fuller. Sono seduti a un tavolo e lavorano al progetto di Fuller per il Teatro Samuel Beckett, incassato sotto il quadrilatero del St Peter’s College di Oxford (1971). Allo stesso tavolo siede anche Tony Hunt, l’ingegnere che ha progettato il Sainsbury Centre. Per Foster, il tavolo ha sempre rappresentato un’espressione simbolica del suo approccio collaborativo alla progettazione: fin dall’inizio, nel suo studio ingegneri e designer hanno lavorato a fianco degli architetti, non come consulenti esterni, ma come membri del team. Tra questi ricordiamo Martin Francis, formatosi alla Central School of Art and Design come designer di mobili, e David Nelson, che ha studiato design industriale ed è ora co-responsabile del design di Foster + Partners. Francis e Nelson non hanno lavorato specificamente come designer di mobili, ma hanno partecipato alla definizione di soluzioni architettoniche più ampie, collaborando anche con Loren Butt, ingegnere ambientale, e John Walker, consulente per i costi.
Questa miscela di competenze e specializzazioni si riflette oggi in Foster + Partners. Lo studio dispone, per esempio, di un ampio laboratorio per la realizzazione di grandi modelli fisici, di studi di registrazione e cinematografia digitale, nonché di un team che utilizza Unreal Engine, il programma sviluppato da Epic Games per creare realtà virtuale in scala 1:1. Un altro gruppo si occupa di ricerca applicata e sviluppo, concentrandosi su aree quali l’intelligenza artificiale, la robotica, l’informatica e la geometria complessa.
La questione di quanto gli architetti abbiano da offrire al design, e viceversa, è oggetto di appassionate discussioni almeno dai tempi di Adolf Loos: il suo articolo polemico A proposito di un povero ricco, pubblicato nel 1900 su un quotidiano viennese, metteva alla berlina quegli architetti, in particolare Henry van de Velde, che credevano nell’architettura quale Gesamtkunstwerk, convinti che ogni maniglia, lampada, poltrona leggera e tavolo contribuissero allo scopo dell’architetto, cioè la creazione di un’opera d’arte totale. Come Loos, anche il critico inglese Reyner Banham, che Foster iniziò a leggere nel 1959, e che era a sua volta un appassionato ciclista, criticava apertamente il designer tutto preso dal proprio ruolo. Scrivendo nel catalogo della mostra “Modern Chairs, 1918- 1970”, allestita alla Whitechapel Gallery nel 1970, Banham suggeriva che “una valutazione razionale del modo in cui viviamo oggi sembra aver bisogno di un sostantivo astratto come furniturisation per descrivere come oggetti domestici, prima senza pretese e virtualmente invisibili, diventino improvvisamente grandi oggetti monumentali che richiedono attenzione, protezione dalla polvere e la pubblicazione nei supplementi a colori dei giornali. L’ultima vittima è l’aria condizionata.
Questo utile servizio era svolto da semplici scatole collocate ordinatamente sui davanzali delle finestre o nascoste in nicchie del muro. Ora ci sono almeno due modelli italiani che poggiano su piedistalli a croce dotati di ruote. Alla prossima Triennale ci saranno senza dubbio versioni completamente personalizzate da designer di fama e un altro macchinario sarà trasformato in un elemento di arredo, così che un’altra classe di oggetti risoluti ad affermare la loro presenza avrà piantato gli artigli nella moquette del salotto per non mollare mai più la presa”.
Banham intendeva il fenomeno della furniturisation, o quello che chiamava “il prevalere dell’apparenza sulla prestazione”, come un aspetto della tensione tra cultura e tecnologia. “La pura tecnologia”, suggeriva, “probabilmente porterebbe alla fine dei mobili o almeno li renderebbe invisibili”. Un atteggiamento che ha alimentato il profondo interesse di Foster per la progettazione di sistemi e la sua perdurante preferenza per i kit da assemblare. Ed è chiaramente visibile in una selezione della sua prolifica produzione di disegni, che sta gradualmente emergendo sotto forma di una serie di volumi in facsimile basati sui suoi quaderni di schizzi. Il primo volume, che copre gli anni dal 1975 al 1980, è particolarmente rivelatore, sia per i progetti che non sono mai stati costruiti e per quelli che sono andati perduti, sia per quelli che sono stati effettivamente completati.
I progetti non realizzati comprendono una casa che Norman e la sua prima moglie, Wendy, avevano progettato per un sito nel nord di Londra. L’abitazione avrebbe dovuto avere una rimarchevole struttura d’acciaio perforato, che suggerisce l’influenza di Jean Prouvé, e alcune intriganti capsule da bagno prefabbricate che sarebbero state collegate per servire gli interni. Esiste una grande quantità di materiale anche sulla boutique Joseph di Sloane Street, sempre a Londra, aperta nel 1979 e ormai da tempo smantellata. Gli schizzi mostrano l’intenzione di creare uno spazio a doppia altezza, con travi a I, passerelle delicatamente lavorate e scale ispirate alla parete di libri della Maison de Verre di Pierre Chareau. Le note di Foster descrivono il modo in cui intendeva assumersi la responsabilità della produzione e della fornitura degli arredi.
Quando Foster realizzò questi disegni, aveva già cambiato tre volte la sede dello studio. Era passato da un appartamento residenziale a Hampstead, dove aveva iniziato nel 1963, a un piano degli uffici dell’ingegnere strutturale Tony Hunt, a Covent Garden. Nel 1971 allestì il suo studio in Fitzroy Street. L’edificio aveva una facciata a cortina che rifletteva il progetto di Willis Faber, mentre all’interno le pareti di un verde vivace con angoli arrotondati ricordavano sottomarini o aerei. Lo studio inoltre era dotato di una delle prime installazioni del sistema Action Office II di Herman Miller in Gran Bretagna. Inizialmente, poteva ospitare solo 20 persone, compreso l’addetto alla reception: oggi Foster + Partners impiega circa 2.000 persone.
All’epoca, però, lo studio sembrava il massimo della raffinatezza aziendale. I quaderni di schizzi contengono anche le idee di Foster per lo studio di Great Portland Street, dove si sarebbe trasferito nel 1981, e i suoi arredi, progettati appositamente. Tra questi, c’è quello che all’epoca era un elemento essenziale dell’equipaggiamento dello studio: il tecnigrafo. Con i suoi piedini circolari regolabili e le gambe rinforzate mostrava un’irresistibile somiglianza con il veicolo spaziale con cui la NASA aveva toccato il suolo lunare – le nervature perforate, tuttavia, parevano più vicine alla struttura della fusoliera di un bombardiere Lancaster della Seconda Guerra Mondiale. Il tavolo costituì un prototipo per la serie degli arredi utilizzati per la sede della Renault di Swindon, concepita in Great Portland Street.
Foster fece realizzare appositamente i suoi tavoli. Si rivolse allo stesso fabbricante per produrre la gamma più ampia di pezzi utilizzati per la Renault, dove c’erano diverse versioni per il banco della reception, per i tavoli con ripiano in vetro della mensa del personale e per l’area degli uffici – uno di questi è stato acquisito per la collezione del Vitra Design Museum. Solo dopo l’incontro di Foster con la famiglia Borsani, proprietaria di Tecno, i progetti divennero pienamente produttivi per il sistema Nomos e si delineò una struttura più semplice con una gamma completa di componenti. All’inizio degli anni Ottanta, Foster crea un team di design industriale per lavorare al progetto Nomos. Pur essendo ancora un elemento relativamente piccolo nel contesto generale dello studio, il gruppo di lavoro ha raggiunto risultati pari a quelli della maggior parte delle società indipendenti di consulenza di design industriale. Il suo lavoro si estende a tutti i tipi di arredi, con rapporti di collaborazione a lungo termine con UniFor, Walter Knoll, Poltrona Frau, Molteni&C e Tecno. Oggi esistono sistemi Foster per l’ufficio, per gli aeroporti, ma anche posate, sedute, porte, bagni e cucine.
Li accomuna la qualità che Foster ha descritto nel suo saggio sul ciclismo e, come lui stesso ha detto, parlando degli attacchi dei pedali, “così ovvi e diretti da chiedersi come mai ci sia voluto tanto tempo per la loro evoluzione, ma la semplicità è ingannevole”
Immagine di apertura: Norman Foster, foto Nigel Young/Foster + Partners