Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1042, gennaio 2020.
Il mio primo incontro con Enzo Mari risale a quando vidi per la prima volta la sua sedia Box.
Ero un giovane designer e vedevo qualcosa di miracoloso in una sedia che poteva essere venduta in un sacchetto di plastica non più grande della sua seduta. Ne comprai una ed è ancora con me.
Ammiro il suo approccio concettuale al design e, se anche meno concettuale, condivido l’apprezzamento per le forme archetipiche e il procedere nel progetto per eliminazione di possibilità.
Non pretendo, quindi, di essere un esperto di Enzo Mari, ma solo uno spettatore riconoscente che, da designer, deve parte della sua formazione, e ispirazione, all’esempio offerto dai suoi oggetti.
Riconsiderando il suo lavoro non si può fare a meno di pensare che, per come è andata con il design, oggi un approccio tanto intransigente non andrebbe bene per un giovane designer.
Cosa è cambiato dunque? Mari si definisce un designer, o piuttosto un intellettuale “che contraddice la realtà esistente” per liberarci dai vincoli dei ‘condizionamenti’. Rimane un modello per i designer che cercano un approccio puro e onesto alla professione proprio poiché la produzione del design si è spostata così lontano dall’ideale di ciò che dovrebbe essere, ossia la ricerca dell’unica forma possibile per oggetti che scelgono di “essere piuttosto che sembrare” perché solo così si persegue la qualità. Alessandro Mendini ha scritto che Mari è la coscienza di tutti noi. Io tendo a vederlo in una luce più donchisciottesca, un designer di progetti mai compromessi con l’industria o il mercato, sostenuto dal convincimento che il consumatore, rinsavito, un giorno avrebbe capito la differenza. I suoi progetti sono educativi nell’aspirazione a renderci consapevoli delle ragioni che li portano a essere come sono.
L’essere artista e la scoperta del design come un campo d’azione può servire a comprendere l’approccio sperimentale del suo lavoro così vicino al processo di creazione artistica rivelato dai suoi disegni. Quella che potrebbe essere definita “l’età dei lumi” per il design ha mostrato un appetito culturale senza precedenti per il progetto, grazie al quale era riconosciuta al contenuto intellettuale e concettuale del progetto un’importanza quasi maggiore del suo potenziale commerciale. In quella stagione libera dal marketing, i produttori erano più vicini alle gallerie d’arte nella loro funzione di servizio per il design.
Quando il design ha perduto il suo ruolo culturale, per quanto elitario, a favore di un mercato più ampio, la principale vittima è stata il convincimento che un oggetto, oltre al ruolo puramente funzionale o commerciale, potesse assumerne uno etico e culturale. L’eliminazione del superfluo è al centro del lavoro di Mari, il progetto dovrebbe tradursi in una soluzione essenziale priva di quegli elementi ridondanti che hanno il solo compito di mascherare la debolezza di un concetto.
Il valore del suo lavoro e l’ispirazione che ne deriva, al di là dell’apprezzamento dei progetti stessi, consiste nel ricordare a tutti noi come discernere la differenza tra reale e falso.
Jasper Morrison (Londra, 1959) ha studiato Design presso il Kingston Polytechnic e al RCA. Nel 1984 ha studiato all’HdK di Berlino con una borsa di studio. Nel 1986 ha aperto il suo Office for Design a Londra. Attualmente lo studio Jasper Morrison Ltd ha sede a Londra, Parigi e Tokyo. È autore di una gamma di oggetti sempre più ampia per aziende come Vitra, Cappellini, Flos, Marsotto, Punkt, Camper e Muji. Ha pubblicato diversi libri e progettato numerose mostre. Ogni mese, con Francesca Picchi, s’interrogherà sul futuro del design, attraverso casi esemplari.