Abitare è scegliere il luogo, o i luoghi, dove si vivrà in base a un’affinità, a un desiderio, prima dal punto di vista geografico poi da quello sensoriale. È organizzare il proprio benessere, segnare lo spazio con la propria impronta, adattarlo, farne un’espressione di noi stessi e di chi vive con noi.
Abitare è naturale, è il primo dei diritti di ogni individuo. Chi è fuggito dalle città ha in genere scelto abitazioni minime, spesso su lottizzazioni, inizialmente cloni di casette ottocentesche con piccoli orti. Presto, però, i luoghi deputati ad accogliere la manodopera sono più ridotti, la casa diviene cella, una identica cella ripetuta all’infinito in brutti parallelepipedi di cemento.
Non si può più scegliere. L’alloggio popolare è entrato in un’epoca neocarceraria, quella degli appartamenti che diventano luoghi di sopravvivenza segregati, fuori dalla città. Gli alloggi popolari sono quindi campi, nel senso di “zone residenziali approssimative per una popolazione oggetto di segregazione”. Il più delle volte, questi campi saranno permanenti: quando infuria una pandemia, vivere in queste celle prive di spazio esterno è un inferno. Ecco, quindi, che gli abitanti si trasformano in condannati a pene che non si scontano più in anni, ma in generazioni. Questa è la ragione per cui l’urgenza delle urgenze è restituire a questi milioni d’abitanti il diritto ad abitare, a respirare in spazi intimi ben dimensionati e proporzionati tra interno ed esterno. Per raggiungere questo scopo, ogni mezzo è buono: anche cancellare le regole, quelle virali che diffondono l’invivibilità.
L’architetto deve avere una veduta olistica della casa dell’uomo. È la sua missione. È il suo ruolo sociale. Quello che oggi gli viene sottratto. Bisogna pur vivere da qualche parte, ma a chi spetta la responsabilità di questa “qualche parte”? L’irresponsabilità della politica su questo argomento prova che bisogna farne un diritto: non deve essere una regola, ma un riconoscimento della qualità e della libertà delle verità localizzate, quelle che caratterizzano il territorio, entità senza segni di frontiere, con microclimi e con i grandi piccoli piaceri dei boschi, dei venti, delle piogge, dei monti, delle pianure, delle foreste, delle coste, dei mari e delle rocce che hanno dato forma al carattere di generazioni. Questo diritto non va privato delle sensazioni millenarie coscienti o ingenue che stanno nel più profondo della nostra anima. Forte di questo diritto, di volta in volta, ogni sindaco, ogni architetto potrà usare ogni mezzo a sua disposizione per ampliare, per rivivere, per fare imparare a respirare di nuovo, per sviluppare la consapevolezza del piacere di essere ancora in un determinato luogo.
Trasformando gli edifici esistenti, facendo restare gli abitanti in quello stesso luogo, Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal – missionari dei piaceri permanenti ritrovati, degli spazi aggiunti, dei semplici tendaggi miracolosi per celare, proteggere dal sole, personalizzare e addolcire un interno, innamorati degli alberi e dei boschi – hanno consentito a centinaia di migliaia di persone ‘imprigionate’ nelle loro stecche e nelle loro torri di avere un futuro più felice, per costruire alloggi più ampi e meno costosi. La riconversione di immobili commerciali, industriali e amministrativi è oggi la strada più semplice per fare cose troppo grandi, troppo alte o troppo basse, per aprire corti nei tetti e per inventare l’impensabile.
Le sopraelevazioni, le addizioni più semplici – come nel caso della casa islandese accanto a un monte progettata da Studio Bua – e talvolta alcuni recinti demoliti e una struttura rivestita a calce rendono poetico lo spazio e ci fanno respirare piacevolmente. Ogni occasione è buona per rendere piacevole l’abitare.Non si tratta di edilizia residenziale sociale perché economico, ma in quanto frutto dell’approfondimento
dell’architettura su un preciso luogo, un esempio di continuità ottenuta tramite modesti investimenti e anche espressione del piacere di respirare meglio grazie all’intelligenza e alla sensibilità.
Immagine in apertura: Herzog & de Meuron, Complesso residenziale in rue des Suisses, Parigi, 1999-2000. Foto Margherita Spiluttini / Architekturzentrum Wien, Collection