“Tobia è un luminator portatile, un pezzo quasi nomade: una lampada da terra caratterizzata dal gioco centrale del tubo, che invita alla presa, e da una potente luce diretta proiettata verso l’alto, che diventa per rifrazione luce diffusa ambientale”. Ferruccio Laviani, cremonese di origine, classe 1960, studio a Milano fondato nel 1991 dopo essere stato associato di Michele De Lucchi descrive così la sua ultima lampada per Foscarini, presentata nel 2019 e da poco disponibile in catalogo. Prendendo le mosse dalla tipologia del luminator - ovvero una lampada da terra a illuminazione indiretta e diffusore fisso che proietta la luce sul soffitto, lanciata la prima volta da Luciano Baldessari nel 1929 -, Laviani disegna un oggetto essenziale che ha nella flessibilità e nell’estrema funzionalità i suoi punti di forza. Il nodo centrale non è solo un gesto grafico, ma anche un’impugnatura per spostare facilmente la lampada, anche nella versione a parete, con la luce emessa dalle due estremità della lampada: verso l’alto (una luce di potenza) o verso il basso (più tenue). Un altro punto di forza è la gamma di colori che ne fanno un oggetto adatto a quasi qualunque ambiente: dalle versioni minimali in bianco e in nero a quelle più pop dai colori fluo.
Ferruccio Laviani: “Il design italiano è un concetto internazionale che va ben oltre lo stile”
Intervista a Ferruccio Laviani sulla sua ultima lampada per Foscarini, Tobia, sulla musica che ascolta, i designer che lo ispirano e le qualità che un cliente ideale dovrebbe avere.
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- Elena Sommariva
- 01 luglio 2020
A chi piacerà Tobia?
È una lampada, che punta sulla semplicità e sulla tecnologia ed è pensata per essere trasversale. È una lampada di funzione, led, da terra. Le diverse finiture, più o meno marcate, la rendono un passe-partout capace di incontrare le esigenze di un ventaglio abbastanza ampio di persone. Il colore rosso fluo, per esempio, ha un segno grafico forte; la finitura dorata è invece più leziosa e si lega a un arredo classico. Tobia recupera l’eredità delle lampade a pavimento degli anni Ottanta, come la Callimaco di Ettore Sottsass (1982), ma anche la Imbuto di Ignazio Gardella e Caccia Dominioni (1954). Questa tipologia – luce indiretta, rivolta al soffitto, che ricade sull’ambiente – ha funzionato bene con le alogene, fino agli anni Novanta. Poi, è diventata un po’ desueta. Negli anni 2000, invece, lo sviluppo della tecnologia led ha portato a ridurre al minimo la fonte luminosa, più sottile e più potente con forme minime e la stessa resa illuminotecnica. Oggi le lampade sono oggetti quasi magici: fanno senza far capire da dove viene.
Quali materiali ha usato? Perché?
L’alluminio per le più parti interne per dissipare il calore del led, pur mantenendo una potenza importante, volevo una bella luce e non solo segno grafico. La lampada è molto ben industrializzata, in modo da usare una quantità minima di materiale.
Perché ha scelto il nome Tobia?
Le mie lampade più di successo cominciavano per T: Tuareg, Taj, Toobe… E poi è un omaggio a Carlo Scarpa. Infine, volevo che fosse un nome di persona per rendere la lampada più “friendly”.
Qual è stato il punto di partenza? E la fonte d’ispirazione?
La tipologia è quella del luminator, l’ispirazione decorativa richiama un po’ Memphis, un’iconografia postmoderna.
Un designer che ammira? Perché?
Ce ne sono talmente tanti… Vengo dagli anni Ottanta, sono figlio
di Memphis, ammiro quelle aziende che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
del 2000 hanno fatto la storia del design: Cappellini, Moroso, Driade… Aziende
che hanno portato il prodotto industriale alla massima connotazione artistica,
senza perdere il carattere industriale. Ammiro molto il lavoro di Antonio
Citterio come art director di B&B, T70, Arflex. è difficile scegliere un architetto o un designer; le
ispirazioni a volte arrivano da più persone: Achille, Rodolfo, Michele… Senza
di loro credo che la mia creatività non esisterebbe.
Ammiro quelle aziende che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del 2000 hanno fatto la storia del design: Cappellini, Moroso, Driade… Aziende che hanno portato il prodotto industriale alla massima connotazione artistica, senza perdere il carattere industriale.
C’è una routine nel suo lavoro?
Arrivo in studio molto presto la mattina e me ne vado la sera
tardi. Quando sono in ufficio mi spremo, ma quando esco mi dedico ad altro. La mia
ricarica creativa è staccare di netto. Sono regolare nel lavoro. In studio non
ci sono grandi ruoli a livello strutturale: lavoriamo vicini e si progetta
insieme.
Qual è l’ambiente perfetto per progettare? Musica o
silenzio?
Vivo di musica, non potrei mai progettare in silenzio.
Quale musica ascolta?
Tutta: dall’acid psichedelico al rap, alla disco anni Ottanta…
Il mio è un ascolto “shuffle”.
Cosa sognava di diventare a otto anni?
Tutto fuorché quello che faccio ora. Mi piaceva disegnare,
ma niente che dicesse che volevo fare l’artista. Avevo cominciato a frequentare
la scuola di liuteria a Cremona, ma poi l’ho lasciata per diventare disegnatore
di mobili: è stata la mia salvezza. Da lì mio padre mi ha fatto iscrivere al
corso di Architettura del Politecnico e poi alla Scuola Politecnica di Design,
l’ultimo investimento dei miei genitori. Da piccolo, sognavo di diventare egittologo:
l’Egitto e Il Cairo sono i luoghi che ho tutt’ora nel cuore, ci vado spesso;
l’attrazione per quella cultura, quella storia e quell’architettura resta per
me molto importante, come quando avevo 7-8 anni e leggevo degli antichi Egizi
sull’enciclopedia. Il Museo del Cairo per me è uno dei posti più strepitosi che
esistano al mondo.
Da piccolo, sognavo di diventare egittologo: l’Egitto e Il Cairo sono i luoghi che ho tutt’ora nel cuore.
Parlando da designer, art director e curatore, qual è
secondo lei e il difetto peggiore in un cliente?
Quando non crede in quello che dici, la cosa peggiore è quando
ti chiamano per quello che sei più che per quello che fai. Sono relazioni destinate
a durare poco. Invece, ho rapporti trentennali con molte aziende. Ci sono alti
e bassi, come nelle coppie di vecchia data, ma insieme si cambia e si cresce.
Con Kartell Foscarini, Molteni Dada ho avuto relazioni fondamentali perché sui
risultati nasce la fiducia, che è sempre difficile da guadagnare. Preferisco un
cliente che non ha possibilità, ma ha un progetto vero in cui crede.
Tre qualità di un oggetto ben riuscito
Prima cosa, deve piacere agli altri, perché un prodotto di disegno
industriale deve vendere. Nessuno ha bisogno di una nuova sedia o divano, bisogna
quindi fare innamorare le persone di un prodotto nuovo. Poi, dev’essere
innovativo e aprire strada anche agli altri prodotti che seguiranno. Infine,
deve rendermi orgoglioso. Il resto è visione personale e cerco sempre di lasciarla
in secondo piano, altrimenti avrei fatto l’artista.
Un oggetto ben riuscito per prima cosa deve piacere agli altri, perché un prodotto di disegno industriale deve vendere.
Esiste ancora uno stile italiano nel design?
È sempre esistito e non è finito. Il vero design è italiano:
quasi tutti gli stranieri si sono fatti le ossa qui. Il design italiano credo
che sia un oggetto prodotto in Italia, ma fatto internazionalmente. Sarebbe
difficile replicare questo modello altrove. Non sono particolarmente
campanilista, ogni tanto siamo noi stessi a essere poco capaci di difendere
casa nostra. Il design italiano è un concetto che va ben oltre lo stile.
Cosa si trova in cima alla lista dei suoi desideri?
In questo momento, che si trovi un vaccino contro il
Covid-19, perché tutto ritorni a essere come prima, anche se sarà molto
difficile. Questa esperienza ci ha insegnato a vivere alla giornata, a soddisfare
le necessità di tutti i giorni a stare con i piedi per terra ed essere realisti.
Dobbiamo fare un progetto generale, per Milano per esempio: come le piste ciclabili.
Ci siamo resi conto di quanto vale un’architettura che tiene conto di uno sfogo
esterno, fosse anche un minuscolo balcone. Dobbiamo ripensare la distribuzione
interna delle nostre case, disegnare nuovi spazi per le famiglie. Queste sono
le cose importanti di cui ci siamo resi conto durante la pandemia: sono le cose
dell’oggi non del domani. Non bisogna ripetere l’errore di pensare troppo in
là.
- Tobia
- Ferruccio Laviani
- Foscarini
- 2020
Ferruccio Laviani, lampada Tobia per Foscarini, 2020
Ferruccio Laviani, lampada Tobia per Foscarini, 2020
Ferruccio Laviani, lampada Tobia per Foscarini, 2020
Ferruccio Laviani, lampada Tobia per Foscarini, 2020
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