Quando uno studio cresce e il suo fondatore invecchia bisogna porsi il problema di cosa fare della cultura del progetto che in quel contesto è nata e si è sviluppata. Così Michele De Lucchi, forte dell’esperienza come docente universitario, ha riorientato lo studio verso una struttura tendenzialmente orizzontale, dando spazio ai suoi figli e a giovani professionisti che si stanno appropriando della filosofia di un autore che è per primo in continuo cambiamento.
Come nasce AMDL Circle?
Pico De Lucchi: Negli ultimi 15 anni, da quando è diventato professore prima a Venezia e poi al Politecnico di Milano, si è innescato qualcosa di nuovo nel modo di Michele di rapportarsi allo studio. Nella relazione con i suoi studenti si è reso conto che essi guardano al suo lavoro con occhi nuovi e lui stesso ha finito per vederlo diversamente. Non solo, anche quello che è successo ai suoi maestri Achille Castiglioni ed Ettore Sottsass quando hanno smesso di lavorare lo ha portato a riflettere. L’esempio della Fondazione Castiglioni, che è bellissima, è rischioso sotto il profilo economico perché le risorse della fondazione potrebbero esaurirsi. Bisogna trovare una formula che abbia un senso economico e non soltanto sociale. Per non parlare di Sottsass.
A questo si aggiunge il fatto che io e mio fratello Arturo siamo entrati in studio, così insieme ad Angelo Micheli (direttore dello studio) e a Davide Angeli (coordinatore design) abbiamo cominciato a ragionare su come muoverci. Si tratta di preservare il lavoro e l’esperienza di Michele ma soprattutto di trasmetterli e di permettere ad altre persone di aggiungere cose nuove nella scala dell’architettura olistica. E questo lo si fa con uno studio che continua a lavorare e con un’organizzazione che è via via sempre più indipendente dal suo fondatore.
Ci sono studi che hanno proseguito l’attività per decenni anche dopo la scomparsa del fondatore, restando fedeli sotto il profilo formale, dell’organizzazione, del rapporto fra clienti e fondatore. State prendendo questa strada oppure è un’ipotesi più conservativa?
PDL: Intanto l’idea è di farlo adesso che Michele è ancora presente. Il lavoro che stiamo facendo, con lo stimolo di mio padre che ci sta facendo entrare sempre di più nella parte di progettazione, è la chiave per provarci sin da ora.
C’è qualche caso, ma è molto raro, che uno studio fortemente autoriale sia riuscito a fare questa transizione. Il problema con studi estremamente autoriali, come ad esempio quello di Zaha Hadid, è sotto gli occhi di tutti. Nonostante abbia un’organizzazione molto definita si vede che l’autorialità si sta dissolvendo.
Non pensi che sia inevitabile?
PDL: Penso che sia parte del processo, però non credo che debba essere il passaggio da un autore all’altro. In questo modo non si portano avanti i valori dello studio ma quelli di un altro autore. Per noi invece l’idea è che tutti possano attingere a un patrimonio, infatti non abbiamo una struttura con partner ma una struttura orizzontale e collettiva. Per ogni progetto si assembla un gruppo di persone che non sono solo interne ma sono anche professionisti diversi come filosofi, psicologi, eccetera.
Ma questa è ormai una necessità dell’architettura per tutti. Non esiste più l’architetto che lavora da solo. Ci sono molti progetti, tra questi quelli bottom up, che sono condivisi con un gran numero di figure professionali e con le comunità.
PDL: Sì, a livello accademico è così, ma se ci penso non conosco molti studi che lo facciano sistematicamente.
Davide Angeli: Direi che è necessario creare l’humus giusto in cui altri possano entrare. Una sorta di “brodo primordiale” organizzato. Nell’incontro e scontro di idee, di persone e anche di non ruoli nascono i progetti. Oggi l’architetto fa dei progetti strategici più che dei progetti semplicemente architettonici o di segno. Penso che lo sforzo per noi sia di fare quello ma di farlo in modo organizzato per lavorare sul “brodo primordiale”. Quello che faceva Michele, col suo carisma, la sua personalità nel dirigere va fatto attingendo alla cultura dello studio nel tentativo di non ripetersi. La fortuna di lavorare qui la si vede nel percorso di questi 37 anni: dal tutto colore, agli uffici neutri per la Deutsche Bank, alle case fatte tutte di legno, alle ricerche di oggi sulle architetture maestose e fuori scala come le cattedrali. Non abbiamo uno stile, per quanto ci sia un uso dei materiali, dei segni che noi vediamo come base del lavoro. Se si guarda ai compagni di strada di De Lucchi è evidente che, benché tutti avessero negato lo stile univoco, si scopre che a un certo punto ne hanno scelto uno, finendo per fare sempre la stessa cosa. La capacità di trasformarsi è la speranza di questo studio, il cambiamento è quello che ci rende forti, con Michele che rimette sempre in discussione tutto. Nonostante gli piaccia fare le casette di legno ancora adesso, cerca di fare un’altra cosa. Penso sia un suo bisogno che ci ha trasmesso, quello di cambiare, di evolvere. E questo è bello perché non dobbiamo portare avanti uno “stile De Lucchi”.
Ci sono dei segni, su cui abbiamo fatto un libro Connettoma, sinapsi di architettura, titolo ancora provvisorio, che uscirà a breve. Comprende tutto il lavoro dello studio ed è strutturato per connessioni visive tra segni che hanno cambiato scala. Nel fare questo libro ci siamo resi conto che il modo di procedere è proprio quello di partire da qualcosa che è già stato fatto, lavorarci per poi negare tutto. È un libro che servirà soprattutto a noi per creare quell’humus di cui parlavo, l’unica base che condividiamo.
Una sorta di “manuale di stile”, come quelli che i grafici realizzano per l’applicazione di un’immagine coordinata?
DA: In qualche modo sì.
PDL: Lo studio ha questa particolare dinamica che va condivisa, in particolare con i ragazzi giovani che stanno entrando e sono il 25% dello studio, per permettere questa crescita come gruppo.
Parliamo di Produzione Privata. Cosa è adesso?
PDL: nella visione olistica dello studio è quella ramificazione del design che diventa prodotto. AMDL Circle disegna prodotti, cosa che non sempre è nota.
DA: Il punto è che lo studio ha seguito naturalmente le indicazioni del fondatore che in questi ultimi anni si è dedicato molto e con successo all’architettura. Tutta la parte di design del prodotto, design d’interni, grafica era andata scemando. Negli ultimi tre, quattro anni, contemporaneamente alla crescita dello studio e al bisogno di Michele di vedere le sue architetture rappresentate anche negli interni, nella grafica, con l’idea che il progetto sia più completo possibile, ha fatto rispolverare queste conoscenze, tra cui la stessa Produzione Privata. Abbiamo disegnato di recente un albergo in Alto Adige, l’Hotel Zirmerhof. Un progetto abbastanza piccolo su cui però Michele ha insistito perché ci mettessimo tutte le competenze: in questo modo si sviluppa il potenziale dello studio. Il progetto di un albergo prevederebbe il “coordinatino” ma il coordinato qui è vietato!
Gli stimoli vengono dall’alto il progetto però viene dal basso. Una volta era lui che ci portava uno schizzo, anche molto grezzo, di una sedia e noi dovevamo trasformarlo in un progetto. Adesso si aspetta da noi gli schizzi, che è un atto di grande fiducia nei nostri confronti. Credo che questo venga proprio dall’architettura. Un progetto di architettura cambia molto nella realizzazione, è cambiato dalle persone che lo fanno, ingegneri, tecnici, cambia mille volte, tante quante sono le mani che ci lavorano. Allora perché non farlo nello studio, con le persone con cui si lavora da anni, che siano 40 oppure 3, non importa.
Da circa un anno e mezzo, ogni sei mesi, tutti – dal modellista, all’architetto, dal grafico, al designer – dedicano una settimana a un progetto di ricerca. Quest’anno il tema era la pandemia, non in quanto tale ma in relazione a quello di cui ci occupiamo, dal residenziale all’oggetto, dall’ospedale all’ufficio. E i risultati sono stati interessanti. Lo stesso sta facendo Pico con Produzione Privata. Ha chiesto a tutti coloro che in studio si occupano di interni e prodotto di pensare a grandi scenografie e installazioni, come nel caso della mostra da Assabone, fatte di prodotti da presentare poi a Michele e trasformare in catalogo.
PDL: Produzione Privata può ambire a questo, proprio per la sua storia di collezioni costituite da pezzi unici che spingevano al limite le capacità degli artigiani. A differenza di una produzione industriale queste collezioni non sono strettamente vincolate alle leggi del mercato, anche se sono in vendita. E questo ha fatto sì che potessero anche essere esposte in gallerie e collezionate. Alle volte gli oggetti sono nati per una mostra, altre volte nascono da una ricerca. Ad esempio i vassoi da muro, sono oggetti che hanno una funzione ma quando, come qui in studio, sono appesi al muro finiscono per avere una connotazione diversa. Produzione Privata lavora adesso su due binari: uno quello del prodotto che si può trovare a catalogo, l’altro quello delle collezioni, costituite da pezzi unici o da edizioni limitate.