Questa intervista è stata pubblicata originariamente nel 2020, quando Giuseppe Basile ha lasciato il ruolo di art director. Tuttavia, la sua presenza è stata costante negli uffici di Domus fino ai suoi ultimi giorni, supervisionando sempre il concept grafico della rivista.
“Sono entrato in Domus nel 1988 con l’idea di rimanerci per due o tre anni: ne sono uscito dopo 32. Lavoravo da dieci anni nel mondo dell’editoria, poi un giorno, per puro caso, un mio amico mi fa vedere un annuncio sul Corriere della Sera… sai una volta c’erano pagine intere di annunci di lavoro sul giornale. L’annuncio recitava così: ‘Casa editrice internazionale, rivista di architettura, ricerca responsabile grafico a Rozzano’. Ho pensato, ma questa è Domus! Inequivocabile. Ho risposto all’inserzione e nel giro di 20 giorni ero assunto. Ho fatto svariati colloqui, il primo con Italo Lupi, che allora era l’art director della rivista durante la direzione di Mario Bellini, e al terzo incontro sono uscito con la lettera d’assunzione”.
Comincia così la lunga chiacchierata con Giuseppe Basile, classe 1958, Art Director di Domus che dopo tre decadi lascia la casa editrice e continua la sua attività in proprio a Milano. Ci racconta gli esordi, il passaggio tra analogico e digitale, aneddoti di sigari e fax e come ha dato forma alle idee di ben tredici direttori mantenendo viva l’identità della rivista.
Il tuo primo giorno di lavoro?
Davvero traumatico perché avevo molte persone attorno – un tempo le redazioni erano decisamente più grandi – e, come sempre, in un posto di lavoro ti mettono tutti subito alla prova: non mi conoscevano e volevano capire se fossi all’altezza. Dirigevo i grafici interni e facevo da tramite tra Italo Lupi e la redazione, in sostanza il mio lavoro in Domus in tutti questi anni: cambiando le direzioni di volta in volta c’era bisogno che chi entrasse a dirigere trovasse una struttura capace di mettere in opera tutto ciò che concettualmente si voleva portare all’interno rivista.
Poi nel giro di due anni si è stravolto tutto. È andato via Lupi, è entrato Vittorio Magnago Lampugnani in veste di direttore, e a quel punto mi hanno di rimanere, per dare sostegno in questa transizione e i tre anni che avevo ipotizzato all’inizio sono diventati trenta. Con Lampugnani, poi, concordammo che sarebbe stato utile avere un art director esterno di altissimo livello e insieme scegliemmo Alan Fletcher. Andavo a Londra per seguire il progetto una volta alla settimana, nel weekend. Fu molto dura perché ai tempi non c’era tutta la tecnologia di oggi, il massimo che la tecnologia offriva era il fax… era tutto assolutamente primordiale. I contatti erano sempre fisici e analogici.
Con Alan Fletcher ci siamo resi conto che l’editoria si stava spostando verso il mondo computerizzato, anzi, io venni assunto in Domus anche perché avevo già esperienza di impaginazione al computer. Comprai il mio primo computer e lo pagai diciotto milioni e mezzo di lire, poco meno di quanto costava la Spider Alfa Romeo. Quel periodo ha combaciato anche con il passaggio ai computer all’interno di Editoriale Domus: fu lungo e ci vollero cinque anni perché venisse messa in piedi la struttura interna per produrre al computer tutti i prodotti della casa editrice. Con Alan, quindi, ci fu un doppio progetto: uno cartaceo (il suo) e quello digitale (il mio), in cui trasformavo nel mondo digitale tutto quello che faceva il cartaceo. Erano due mondi veramente diversi.
Da allora la mia esperienza è andata avanti, alla fine ho avuto la bellezza di tredici direttori e sono stati questi repentini cambi di direzione che mi hanno trattenuto in Domus così a lungo. La mia presenza era cruciale in questi passaggi, perché non è mai facile trasformare l’idea di un direttore.
Come si traduce l’idea di un direttore?
La più difficile fu quella di Lampugnani, perché nasceva in analogico e andava trasformata in digitale, cercando di mantenerla il più fedele possibile all’originale. Fu complicato e molto pesante. Da lì in poi fu tutto più semplice perché parlavamo tutti la stessa lingua. Subito dopo venne François Burkhardt, poi Deyan Sudjic e così via. Dovevamo tradurre lo spirito di un direttore che vuole portare innovazione in Domus. Il discorso di tutti i direttori è: “Ah, Domus la grande, che orgoglio lavorare qui, sono onorato di entrare in questa eccellenza, però…”. Ecco dopo il ‘però’ ti dicono esattamente che cosa vogliono fare. E lì inizia il bello perché la rivista deve sempre far fede ai suoi principi.
Domus ha una sua ricetta che deve trasmettere a tutti i direttori quando arrivano, proprio come una ricetta di cucina in cui ci vuole un tanto di questo o un tanto di quello. Domus è così, non parla solo di architettura ma, in giuste dosi, di design, di arte e di tematiche collaterali a questi mondi. Da un lato ci sono le innovazioni che un direttore porta, che è il senso stesso del cambiamento, e dall’altro le fondamenta della rivista, che i lettori si aspettano di trovare, direzione dopo direzione.
Il cambiamento interrompe un po’ il passato, cosa fondamentale per Domus. Se la rivista è grande è perché è stata costruita da tutti questi personaggi che hanno contribuito a darle forma, nel bene e nel male. È anche questo il segreto che la rende forte e unica ancora oggi. Per avere qualcosa di simile bisognerebbe sommare tutte le direzioni, la segreteria, i redattori e i personaggi che la hanno attraversata: una cosa impossibile da replicare. La Domus di oggi conserva un po’ di quello che ha lasciato Gio Ponti. E stiamo parlando di nomi del più alto livello immaginabile.
Cosa rappresenta per te Domus?
Domus è stata la mia vita. Perchè a differenza di altri progetti – un manifesto, la copertina di un disco – non è un’esperienza che nasce e finisce dopo poco tempo. Se tu produci un manifesto graficamente, condensi in una pagina un concetto, una tua cultura grafica e finisce lì. Nel mondo editoriale, invece, la cosa affascinante è che fai crescere un bambino. Quando sono arrivato il bambino era già adulto e questo è stato un po’ più difficile, perché era già fatto, finito, formato, per questo mi sono adattato alla rivista piuttosto che cercare di far adattare la rivista a me. Se ho potuto attraversare 32 anni di Domus è anche perché mi sono dovuto adattare ogni volta alle varie direzioni, accettando anche cose che non condividevo appieno, naturalmente.
Ma il mondo grafico è un po’ così. Dico sempre che potrei impaginare una rivista porno tanto quanto una rivista di cultura perché il mio processo progettuale in qualche modo trascende i contenuti, che sono però fondamentali: la complessità nell’ottenere un risultato coerente è medesima. Prendiamo ad esempio Playboy degli anni d’oro. Tutti i più grandi grafici collaboravano con Playboy, così come i più grandi opinionisti, come ad esempio Moravia. C’era più testo in quelle pagine che in molte riviste di cultura di oggi. I numeri degli anni ’60 di Domus e di Playboy avevano le pagine nere, fitte di testo, sempre interessante da leggere.
Quindi per un grafico fare una rivista vuol dire adottare o far nascere un bambino, ed è un progetto che non finisce mai. Poche altre riviste al mondo hanno la storia di Domus e sono ancora vive. Vuol dire che questo bambino, finché lo nutri e lo curi, continua a rispondere.
Questo è un po’ l’obbligo di chi lavora in Domus: incontrare tutta una serie di persone, di personaggi che gravitano intorno alla rivista e stringere un rapporto di rispetto reciproco per mantenere la maturità di una rivista che ha ormai 100 anni di vita. Questo è possibile solo grazie all’alchimia tra chi arriva e chi è già lì.
Chi sono stati i tuoi maestri?
I miei grandi maestri risalgono ai tempi della scuola, l’Istituto Statale di Arte di Monza che ho frequentato per cinque anni. Roberto Orefice, piuttosto che AG Fronzoni come insegnante di grafica, poi c’è stato Nanni Valentini, che era uno dei più grandi ceramisti a livello europeo, poi Narciso Silvestrini. Guardavo i lavori di grafici internazionali come Ivan Chermayeff o Alan Fletcher. Forse però il santino da mettere sul comodino è di Robert Brownjohn, ero molto affascinato dalla grafica anglosassone che mi interessava di più di quella italiana, anche se avevamo nomi del calibro di Franco Grignani che spopolavano all’estero. Oggi è più difficile che la grafica italiana vada all’estero con così tanto successo.
In Italia mi piaceva Italo Lupi, lui stesso affascinato dal mondo anglosassone, aveva persino una casa a Londra. La mia fortuna è stata poter incontrare e lavorare con molti di loro, come Fletcher, Chermayeff, Massimo Vignelli o Simon Esterson. Poterli osservare all’opera è stato per me un insegnamento di vita. C’erano quelli che lavoravano come dei razzi, di getto, altri invece più riflessivi… Ho osservato anche il loro atteggiamento rispetto alle critiche: alcuni erano coinvolti, altri si isolavano. Questo mi ha dato serenità perché mi ha insegnato anche un po’ il senso della vita, rapportata al mondo del lavoro. Inoltre, la cosa più bella in questi 30 anni è stato lavorare sia su concetti che condividevo, sia su concetti che non condividevo.
Com’è cambiata l’editoria nel corso di questi 30 e passa anni?
Ora, non voglio darmi del vecchio ma io arrivo praticamente da un’altra era. Il mondo della comunicazione si è evoluto in un modo così veloce! Poi ha radici antichissime, basta guardare ai primi impaginati, le prime gabbie grafiche risalenti all’antico Egitto. Se guardi i papiri si intravedono le righe che permettevano di scrivere dritto.
Il mondo della grafica è stato quasi sempre gestito da persone che stavano vicino il mondo dell’arte, prendiamo ad esempio i manifesti di Toulouse-Lautrec. In effetti quando ancora la fotografia non c’era bisognava saper dipingere, disegnare, rappresentare. Poi con la nascita della fotografia e le influenze del Bauhaus l’editoria ha ricevuto una grande spinta all’inizio del secolo scorso. Le riviste in origine erano fatte quasi di solo testo, costosissime e con pochissime immagini dentro. Poi è arrivata la magia della fotografia riproducibile sulla stampa ed è scoppiato il fenomeno dell’editoria.
Pensa che un tempo su una rivista illustrata si indicava quante immagini a colori conteneva perché il colore aveva un costo molto alto. Si diceva “Mi raccomando, non più di tre foto per ogni doppia pagina altrimenti sforiamo il budget…”. Anche i titoli si disegnavano a mano. Poi è arrivato il computer. Oggi si dice che il cartaceo è finito ma io non lo credo e non lo crederò mai. Credo che, come in tutte le rivoluzioni, qualcosa di quello che c’era rimarrà e in questo caso sono convinto che qualcosa si salverà. Cosa si salverà? Soltanto la parte più interessante. Un tempo c’era una rivista per ogni settore economico, “lamiafinestra”, “ilmiolegno”, “ilmiocalorifero” eccetera, forse non aveva molto senso.
Da un lato il mondo della grafica è stato molto aiutato dal pc, dall’altro ha fatto credere a molte persone di potersi cimentare nella grafica senza averne le basi. In Domus provavamo le carte perchè l’inchiostro veniva assorbito diversamente dalla carta lucida o da quella carta “usomano”. Poi ho lavorato al torchio. Oggi c’è tutto un remake della stampa al torchio, dei caratteri mobili eccetera, ma quello che oggi è un remake, è stata la mia vita fino a ieri. Quindi l’appartenenza a un certo periodo storico mi ha dato la fortuna di lavorare oggi, nel mondo digitale, a qualcosa che conosco dalle sue origini. Se non si ha questa conoscenza alle spalle si può imitare, copiare, simulare, e alle volte ci si perde in un bicchier d’acqua perché non si padroneggia l’ABC. Ci sono stati periodi in cui parlavo con persone che volevano fare editoria senza conoscere la differenza tra Bodoni ed Helvetica.
Qual è la differenza tra Helvetica e Bodoni?
È un mondo… La tipografia racconta il suo periodo storico. Ogni corrente artistica ha prodotto architettura che vedevi riflessa negli abiti, negli oggetti e nella tipografia. Ogni carattere porta con sé un mondo. Poi ci sono dei caratteri che hanno attraversato brillantemente la storia, tanto che il Bodoni, siamo all’inizio della stampa, ancora oggi è uno dei caratteri più belli. Lo studio che c’è stato dietro è perfetto, ha portato questa armonia tra spessori delle lettere, alla magia di certe curve dando leggibilità.
Ti viene in mente qualche aneddoto sulla vita in redazione?
Mi ricordo di quando si fumava il sigaro con Pierre Restany: quando era a Milano e veniva in redazione si andava in mensa a mangiare. Lì ascoltavamo racconti bellissimi, aveva un modo di parlare particolare, chiudeva gli occhi e parlava nel suo bellissimo italo-francese, ogni parola era soppesata… e non parlava solo di arte. Parlava di donne, della vita, raccontava dei suo viaggi in Messico, in Amazzonia. Era un cittadino del mondo. Una trasmissione di dati che non è fatta con il computer ma con una persona che ti raccontava mille aneddoti su Andy Warhol o del suo amico proprietario del Moulin Rouge e di tutte le sconcerie che accadevano lì dentro. Era tutto un mondo che spaziava dai concetti spaziali di Fontana, suo caro amico, ai sederi più belli in ufficio. Poi ci spostavamo nel suo ufficio e mi offriva un sigaro: ne aveva sempre due o tre nel taschino della giacca, tutti di altissima qualità, Cohiba, Montecristo. Inevitabilmente si sentiva il passo deciso di Marianne Lorenz, perché al tempo si poteva fumare in ufficio, ma i sigari erano un po’ pesanti, lasciavano quel loro aroma per i corridoi, e diceva “Ma voi due! Pierre, basta con ’sto sigaro!”. Oggi sembrano quasi inimmaginabili tutte queste cose. Poi mi ricordo ancora di litigate clamorose, delle sfuriate pazzesche con parolacce e libri che volavano!
Un’altra volta Marianne ricevette da Bruno Munari una busta per Domus, che lei gli rispedì semplicemente invertendo mittente e destinatario disegnando una freccia, anziché riscrivere l’indirizzo. Un tempo si faceva così. Quando la busta tornò nuovamente a Domus, sul lato in cui appariva la scritta “non piegare” Munari – che è stato un grandissimo grafico, artista e tante altre cose ma soprattutto sapeva giocare con le parole – ha aggiunto “non mangiare, non bruciare e soprattutto, non conservare in archivio”. La busta è rimasta a me e ho sempre pensato di volerci fare un bel quadretto, perché ti racconta un’epoca. Bellissimo.
Una volta stavo lavorando a una copertina con Alan Fletcher e proprio in quel periodo uscì una copertina simile alla nostra ma di una rivista concorrente. Molto preoccupato gli mandai un fax urgente scrivendogli “Alan guarda che è uscita una copertina uguale alla nostra!”. Quando lui andò a guardala mi rispose: “Sì, è vero, è simile. Ma la nostra è più bella”.
Sempre di Alan ricordo il suo modo di fare le critiche, un vero maestro di vita. A una critica accompagnava sempre frasi gratificanti, era un po’ il suo modo di vivere. Mi era capitato infatti di dover gestire la copertina di un numero in autonomia, e quando uscì il numero non ricevetti nessun fax di commento da parte sua. Poi, dopo l’uscita del numero successivo mi mandò un fax con su disegnata una faccia da poker e scritto “Caro Giuseppe, ho visto il secondo numero, it’s much better of the first!”. Un altro giorno mi disse “Guarda tutto il mondo ti sta guardando”, era il suo modo per dirmi “occhio, stai facendo cazzate”.
E il tuo ultimo giorno di lavoro?
Stai registrando? Allora te lo dico dopo (ridendo). Me ne sono andato durante il Covid19 quindi non ho avuto i traumi degli ultimi addii perché erano tutti a casa. L’editore era lì e mi sono commosso nel salutare Giovanna Mazzocchi dopo 32 anni di lavoro insieme.
Ora che avrai più tempo libero, c’è un sogno che vorresti realizzare?
Il mio sogno è vivere il mondo. E anche questo è frustrante, no? Mi sarei già trasferito negli Stati Uniti se non fosse per il coronavirus e la situazione precaria che c’è là in generale. Mi ero sempre immaginato di dare le dimissioni e di prendere un volo per Los Angeles il giorno dopo. Invece…
Sai, una volta viaggiare era una cosa per ricchi, oggi puoi farti il tuo biglietto, partire e il giorno dopo essere dall’altra parte del mondo. È la cosa più bella. Vivere una vita sulla terra, soprattutto quando arrivi una certa età e non averla mai vista è un crimine! Anche perché io arrivo da una generazione dove tutto questo era solo per pochi eletti… cioè, Gianni Agnelli si poteva permettere di stare un’ora al telefono con gli Stati Uniti o di andarci.
Hai un messaggio per gli aspiranti art director?
Innanzitutto, di stare all’erta perché io non ho smesso di lavorare, sono ancora sulla piazza! L’unico consiglio che posso dare, per quanto possibile, è: sceglietevi dei maestri e andateli a incontrare. L’importante è saperli scegliere bene.