Questo articolo è stato pubblicato in origine su DomusAir n.4, aprile 2022.
Paola Deda: Se qualcuno dovesse chiedermi come ho conosciuto Norman Foster e come poi l’architetto sia arrivato a lavorare in stretta collaborazione con le Nazioni Unite la risposta è semplice, anche se un po’ inaspettata: grazie a un articolo di giornale. Era il 24 settembre 2020 e avevo trascorso la giornata a mettere a punto gli ultimi aspetti logistici del primissimo UN Forum dei Sindaci, una riunione degli amministratori cittadini per parlare di come stavano gestendo gli sforzi per rendere più sostenibili le città, lottando al contempo per contenere l’emergenza del Covid-19. Consumata dall’attesa per l’evento, quella notte non riuscii a dormire molto e decisi, nelle prime ore del mattino, di guardare le notizie sul mio smartphone. Scorrendo la versione online del quotidiano britannico Guardian, notai un articolo scritto da Norman Foster su città e pandemia. Fin dai tempi dell’università, avevo ammirato la sua capacità di coniugare in modo molto naturale tecnologia e bellezza e di trasformare ognuna delle sue strutture in punti di riferimento urbani. Presa dall’entusiasmo, continuai a leggere.
“Le città sono il futuro... e avranno il potenziale per essere più tranquille, più pulite, più sicure, più sane, più accoglienti, più percorribili a piedi e in bicicletta e, cosa fondamentale, se verrà colta l’opportunità, per essere più verdi”, aveva scritto Norman. Ripetei tra me e me quella fondamentale condizione limitativa: “Se verrà colta l’opportunità”. Il suo articolo era molto in linea con la mia visione e con le mie speranze per i messaggi che lo UN Forum dei Sindaci avrebbe trasmesso. Norman vedeva la pandemia non tanto come promotrice di un cambiamento ma come forza acceleratrice di tendenze che già esistevano. Parlava di nuovi modelli di lavoro e di mobilità che, se usati strategicamente, avrebbero contribuito alla transizione verso città più sostenibili. “La speranza è di un miglior equilibrio – un’azione internazionale comune sui grandi problemi ambientali e sanitari, e un’azione locale per creare, far crescere e supportare le nostre società collegate”. Ma, per ripetere ancora una volta quel mantra cruciale, solo “se verrà colta l’opportunità”. Iniziai a macinare idee nella mia testa. Come possiamo intrecciare pensiero locale e globale, tradurre gli impegni nazionali in interventi pratici a livello di città? Come possiamo attribuire a una voce locale il potere di influenzare il dibattito internazionale, scambiare idee e soluzioni, e stringerci la mano? Come possiamo cogliere le opportunità di cui Norman stava parlando? Per ognuno di questi interrogativi la risposta era una sola: c’era bisogno di Norman al nostro evento. Doveva tenere un discorso e parlare ai sindaci e ai diplomatici nazionali delle opportunità da cogliere. E così fu. Il 6 ottobre 2020, l’architetto Norman Foster diede il via al primo Forum dei Sindaci delle Nazioni Unite a Ginevra, tenendo un discorso di apertura ai sindaci che erano venuti di persona nella “Emirates Room”, uno spazio futuristico dal design stupendo, molto adatto allo scopo, e ai molti altri sindaci e alle centinaia di partecipanti collegati online.
Norman Foster: Il giorno in cui il mio articolo è stato pubblicato ero in viaggio per vari progetti e Paola chiamò il centralino del mio studio a Londra. Mi venne subito riferito il messaggio che una signora dell’Onu aveva letto il mio pezzo sul Guardian e aveva urgentemente bisogno del mio aiuto. Appena ho potuto, ho richiamato Paola e sono stato subito toccato, come sempre da allora, dal suo entusiasmo in moltissimi ambiti in cui abbiamo le stesse opinioni. Non ci eravamo mai incontrati ma abbiamo presto capito che, al centro delle convinzioni di entrambi, c’è un impegno irremovibile per le città e per la leadership civica nel garantire il futuro sostenibile del nostro pianeta. La sua richiesta era che andassi a Ginevra malgrado il poco preavviso per comunicare di persona quello che avevo scritto sul Guardian agli amministratori cittadini che vi si sarebbero riuniti. Rimasi colpito dai suoi piani e accettai senza esitazione.
P.D.: Anche se ho una formazione da architetto, la mia traiettoria di vita è stata molto diversa da quella di Norman, eppure le nostre convinzioni convergono quando si tratta di opportunità che possono portare le Nazioni Unite, le città e gli architetti a collaborare alla definizione di soluzioni internazionali per un futuro sostenibile. Abbiamo entrambi riconosciuto da tempo che in un mondo sempre più complesso, più connesso ma anche più intricato, la diplomazia deve allargarsi ad abbracciare il contributo di attori locali.
L’idea alla base della diplomazia delle città è sostenere la tendenza esistente che ha portato alla formazione di alleanze e reti cittadine per consentire una maggior espressione dei governi locali a livello internazionale, permettendo al contempo alle città di portare la loro esperienza diretta a quelle che hanno un’influenza globale. Le città devono lavorare con i governi nazionali in un “miglior equilibrio” in cui “l’azione globale comune sui grandi problemi ambientali e sanitari” vada di pari passo con “l’azione locale per creare, far crescere e supportare le nostre società collegate”. Le alleanze sono essenziali, non ultimo quando l’impronta geografica può essere stata, in precedenza, un fattore limitante. Prendete, per esempio, i piccoli Stati insulari nel contesto delle Nazioni Unite. È grazie al raggruppamento in Small Islands Developing States (SIDS), e alla relativa Alliance of Small Island States (AoSIS), che sono riusciti a diventare protagonisti fondamentali dei principali negoziati mondiali, come quelli sul clima. Oltre a portare le loro difficoltà all’attenzione della scena mondiale – per esempio l’aumento del livello dei mari, gli eventi meteorologici devastanti, l’erosione costiera e la perdita della diversità marina delle barriere coralline – continuano a essere giocatori e arbitri nel complicato gioco della politica e della diplomazia internazionale che influenza le decisioni che interessano tutte le nazioni.
Foster vedeva la pandemia non tanto come promotrice di un cambiamento ma come forza acceleratrice di tendenze che già esistevano
Tuttavia, pur essendo ben rappresentati dal loro raggruppamento, i Paesi insulari sono principalmente singoli membri dell’Onu. Non soltanto con i loro diritti sovrani e le loro identità nazionali, ma anche con le loro esigenze specifiche e i loro contributi individuali all’architettura internazionale. Quando si tratta di città e del ruolo che rivestono nella diplomazia internazionale, le alleanze e le reti sono altrettanto strategiche. Permettono alle città di cogliere opportunità. Prendete per esempio la rete C40. Le 97 città aderenti, che rappresentano collettivamente un quarto del Pil internazionale, sono una voce estremamente influente in materia di lotta contro il cambiamento climatico, di impegni lodevoli e di iniziative che risuonano forti e chiare nei corridoi durante i negoziati dell’Onu. Poi c’è anche l’Uclg (Unione delle città e dei governi locali), che ha un ruolo sempre più riconosciuto nelle riunioni dell’Onu in quanto coinvolge, direttamente e indirettamente, oltre 240mila governi locali, e “dà” voce a più del 70% della popolazione internazionale, per citare un’altra rete strategica. Non è soltanto politicamente complesso ma anche fisicamente impossibile riunire rappresentanti di tutte le città del mondo nella stessa aula magna ma questo non ostacola le ambizioni dei governi locali e nazionali.
UN Forum dei Sindaci è pioniere dell’integrazione delle voci delle singole città nel lavoro dei processi intergovernativi delle Nazioni Unite. Attendiamo con ansia di vedere come funzionerà in futuro. Ci vorranno tempo, la saggezza dei diplomatici nazionali e un dialogo intergovernativo per creare una formula di partecipazione cittadina nell’arena internazionale che possa funzionare efficacemente ed essere politicamente accettabile e valida. La nuova formula sarà sicuramente un’opportunità colta, e un passo verso un “miglior equilibrio” tra le esigenze locali dei cittadini e le decisioni dei governi. Per questo abbiamo anche bisogno di una visione più olistica di cosa debba essere un architetto, per sostenere la transizione del mondo e delle città verso una nuova era di equilibrio. Il mondo moderno ha separato molti ruoli e funzioni, facendo di pensatori e filosofi gli intellettuali che usano le parole come mezzo, mentre gli architetti sono percepiti soltanto come attori visivi che usano la progettazione come strumento per creare forme, ma non pensieri o ideali.
Gli architetti devono reclamare il ruolo di pensatori visivi che il Rinascimento ha attribuito loro, e continuare a cambiare non soltanto gli spazi ma anche le percezioni, le abitudini, il comportamento organizzativo e persino le mentalità e gli stati d’animo, attraverso il riconoscimento delle loro strutture e dei loro progetti come influenze sulle città e sui loro abitanti.
N.F.: Il ruolo di diplomazia delle città è accompagnato da responsabilità che sono il fulcro della mia attività professionale da oltre cinque decenni. Gli architetti devono essere i veri ambasciatori della sostenibilità. Perché la loro eredità sia proficua, devono trattare il pianeta con mano leggera. Devono capire tanto la natura quanto la meccanica dei materiali. Devono progettare in modo che i loro edifici, e l’infrastruttura che li unisce per creare città, ricircoli per evitare sprechi, risparmiare energia, e siano flessibili e adattabili al cambiamento. L’edificio sostenibile per eccellenza è quello che può essere riciclato invece che demolito. D’altro canto, le città devono reagire alla crescita, rimanere compatte e ridurre l’urbanizzazione selvaggia e insostenibile.
L’imperativo può essere allora demolire e costruire con una maggior densità. Gli architetti devono adottare continuamente le nuove tecnologie mettendo in discussione quelle vecchie. Devono adattarsi alle esigenze in evoluzione delle nuove generazioni o delle nazioni in via di sviluppo. L’architettura deve lavorare con la natura e gli architetti devono sforzarsi di integrarla, capirla e spiegarla.
Quel carico di responsabilità significa che l’architetto deve diventare promotore della diplomazia delle città – negoziando tra le esigenze dei committenti e quelle di coloro che servono o influenzano. Gli architetti come diplomatici delle città hanno già molti degli strumenti necessari per invocare il loro specifico genere di advocacy, devono soltanto utilizzarli. Devono essere pronti a sostenere la trasformazione dei parcheggi in giardini urbani, delle vie troppo strette per le automobili in viali per biciclette e pedoni, spazi aperti e agricoltura urbana, magari sovrapposti verticalmente, vecchi binari ferroviari in corridoi verdi per nuove forme di mobilità. La nostra connettività in continua crescita attraverso la tecnologia deve essere utilizzata per rendere gli spazi e le città più smart per le persone, e per creare case che offrano una sensazione di comfort e di dignità agli abitanti – indipendentemente dal ceto sociale – e, al di fuori delle loro case, dobbiamo incrementare gli ambienti dove le persone si possono incontrare e chiacchierare – perché non si sentano mai più sole. Riscoprire e migliorare l’ambito civico. All’inizio della COP 26 a Glasgow, le Nazioni Unite hanno organizzato una conversazione mattutina tra me e John Kerry, inviato speciale del Presidente degli Stati Uniti per il Clima, moderato dal leader del City Council (Consiglio comunale) di Glasgow. C’erano due tipi di pubblico – i sindaci in sala provenienti da ogni parte del mondo e quelli online. Mi sono reso conto del potere dell’advocacy e del ruolo delle Nazioni Unite soltanto dopo, quando mi hanno detto che la nostra conversazione era stata seguita da un pubblico di ben oltre un miliardo di persone.
P.D.: Nel suo articolo sul Guardian Norman era convinto che la pandemia avrebbe accelerato le tendenze positive nelle città; con questo articolo volevamo anche condividere la nostra convinzione che le Nazioni Unite possano accelerare molte tendenze positive nelle città. Così come gli architetti, se si coglierà l’opportunità.
Immagine di apertura: Foster + Partners, Canary Wharf Underground Station, Londra, United Kingdom, 1999. Foto Nigel Young