Sulla bocca di tutti, la sostenibilità si impone come un nuovo paradigma in un mondo sempre più scosso dalle ripercussioni nefaste di tre secoli di sviluppo industriale. Nella sua posizione di perpetuo demiurgo, il design si è impossessato di questa parola rendendola la protagonista, o meglio l’aspirazione, di moltissimi progetti. Eppure, intrappolarne la definizione sembra essere un esercizio alquanto sfuggente. Così come del resto rintracciarne un’origine: l’artigianato pre-industriale, per molti una pratica di proto-design, non resta forse un modello produttivo virtuoso e sostenibile, tanto a misura d’uomo che dei ritmi biologici che lo circondano?
Eppure, in un mondo dove la disponibilità delle risorse è sempre più sotto pressione, e i disequilibri ambientali si fanno ogni anno più minacciosi, la sostenibilità si concretizza oggi in approcci sempre più strutturati e fortemente promettenti per riparare agli scompensi che ci circondano. La circolarità è senz’altro uno di questi. Combattendo contro un modello estrattivo, l’estensione del ciclo di vita di un prodotto impersonato dall’economia circolare diventa un’opportunità per ripensare l’economia e la maniera con cui interi cicli produttivi sono strutturati. La simbiosi e il multispecismo, poi, offrono una interessante prospettiva di coabitazione in un antropocene da riformare. Il design sintetico guarda ancora più lontano: se le biotecnologie permettono di progettare nuove forme viventi, il design le può strumentalizzare per riparare i danni all’ambiente, collaborando con la natura per costruire approcci meno impattanti allo sviluppo.
C’è infine un’ultima leva che la sostenibilità odierna difficilmente dimentica: quella sociale. Interfaccia tra l’uomo e il suo ambiente, il design sa meglio di qualsiasi altro che un progetto, per quanto inventivo, non funziona mai in un ambiente asettico, in una camera sterile, ma deve coinvolgere e includere le attitudini, i bisogni e i desideri di chi lo usa. Tralasciare l’aspetto sociale e le sue pratiche di adozione da parte di singoli e comunità e condivisione sarebbe dunque nefasto. Una lezione che anche i grandi maestri del design avevano fatto propria, e che sempre di più ci sarà utile se vogliamo dare alle prossime generazioni di oggetti e al mondo che li circonda un volto più equilibrato e, perché no, felice.