“Un effetto secondario del poter udire i colori consiste nel fatto che quando ascolto la musica ogni nota è collegata a una sfumatura, e quindi posso dipingere ciò che sento. Posso anche ascoltare un cibo, comporre musica in rapporto con quel che mangio, secondo il cibo che ho nel piatto.”
Neil Harbisson e Moon Ribas sono due cyborg che hanno cominciato a modificare il loro corpo nel 2004. Harbisson, acròmate (cioè cieco ai colori) dalla nascita, con il tempo ha messo a punto un sensore per percepire le frequenze cromatiche tramite i suoni. Con l’aiuto di ricercatori e di una squadra di medici altamente specializzati se lo è fatto impiantare nel cervello sotto forma di un’antenna, come quelle degli insetti. È artista, musicista, militante per i diritti dei cyborg ed è in grado di individuare il suono di qualunque colore, infrarossi e ultravioletti compresi.
Ribas è danzatrice e performer, e voleva un collegamento più stretto con la Terra. Il suo Seismic Sense è un sensore collocato sotto la pelle dei piedi, che le consente, attraverso le vibrazioni, di percepire in tempo reale i terremoti che si verificano in qualunque parte del pianeta. Avverte circa duecento vibrazioni ogni giorno, le chiama “informazioni della terra”.
Entrambi sono impegnati nel sostegno della libertà d’espressione tramite la modificazione del corpo, con l’introduzione di nuovi sensi, nell’ambito della Cyborg Art. Domus li ha incontrati a Design Indaba 2019 per capire meglio la situazione del movimento cyborg, tenendo presente che, in un modo o nell’altro, grazie agli apparecchi intelligenti che abbiamo costantemente sottomano, stiamo tutti diventando cyborg.
Come vi caricate?
Per induzione.
Il modo in cui usate la tecnologia è totalmente personale, artistico, ed è una libera scelta. Qual è il vostro rapporto con le tecnologie di massa come gli smartphone e gli apparecchi analoghi, che sono parte di un mercato imposto, soggetto a logiche e comportamenti commerciali differenti?
Moon Ribas: A Neil e a me non interessa la tecnologia in se stessa, e quindi non ci occupiamo della comparsa di nuovi gadget e in generale del mondo della fantascienza: la sfera della tecnologia non ci basta né ci interessa. Usiamo la tecnologia come canale per arrivare a ciò che davvero ci importa, cioè la natura, il pianeta e l’arte. In questo senso siamo più che altro ‘antitecnologici’, perché la tecnologia ci tiene lontani dalla natura. Abbiamo scoperto come aggirare l’ostacolo. Perciò credo di avere con la tecnologia un rapporto simile a quello di qualunque altro individuo medio che la usi per sopravvivere in questa società.
Neil Harbisson: Il fatto è che non ci accorgiamo di ‘usare’ la tecnologia, sentiamo di ‘essere’ tecnologia. Questa è la differenza tra usare il cellulare oppure l’antenna e i sensori sismici. Il cellulare siamo consapevoli di usarlo, mentre l’antenna io non mi rendo conto di usarla, così come non mi rendo conto di usare le orecchie: sono parte di me. La tecnologia come strumento è un modo più consapevole di usare la tecnologia. Se ci si fonde con la tecnologia in certo qual modo essa scompare. Questo è il bello: non ce ne accorgiamo più e quindi possiamo concentrarci sulla natura invece che sulla tecnologia in sé.
Credo poi che la tecnologia di cui tu parli sia destinata a usi molto pragmatici, come telefonare a qualcuno, mentre possedere altri sensi è un’esperienza completamente diversa.
Nel corso del convegno avete citato nuovi modi di vivere la città attraverso questi nuovi sensi, risolvendo problemi come l’inquinamento e i consumi energetici. Parlaci di questo.
NH: La città è la modificazione della natura allo scopo di far vivere meglio noi umani. Credo che nei prossimi decenni ciò cambierà radicalmente, perché invece di progettare il pianeta per vivere meglio le persone inizieranno a progettare se stesse per vivere meglio.
Per esempio le città sono molto illuminate perché il nostro problema è che di notte non ci vediamo, e quindi credo che la città in futuro non avrà tutta questa illuminazione artificiale perché penso che riusciremo a trovare il modo di incorporare la visione notturna nel nostro occhio.
Le città sono piene di condizionatori d’aria per cambiare la temperatura degli edifici, mentre in futuro troveremo modo di regolare la temperatura personale in modo di non aver bisogno di cambiare la temperatura del pianeta per vivere meglio.
MR: Il punto è più che altro comprendere il pianeta in modo diverso grazie a questi sensori. Oggi, percependo i terremoti da tanto tempo come faccio, credo che non abbia proprio senso costruire città sull’orlo delle placche tettoniche, è semplicemente un posto pericoloso per viverci.
Una volta di più affermo che dovremmo imparare con ammirazione dalle altre specie e dal modo in cui riescono meglio a vivere e ad adattarsi al pianeta in cui vivono, mentre noi continuiamo a voler imporre il nostro modo. Forse grazie a questi sensori possiamo comprendere meglio come funziona il nostro pianeta e quali sono le sue esigenze.
Quali nuovi sensi pensate di aggiungere? Ci sono dei vincoli?
MR: Limiti non ce ne sono. È un percorso personale di ciascuno, credo, ed è un’evoluzione continua. Oggi mi sto concentrando sull’attività sismica della luna. La sento nei piedi.
NH: Per me è il senso del tempo, avvertire la rotazione della terra nel mio corpo in modo da alterare la mia percezione del tempo.
Com’è nata la Cyborg Foundation?
NH: È nata nel 2010. Lo scopo era aiutare le persone che volevano acquisire nuovi sensi e diventare cyborg. Il punto era da un lato diffondere la Cyborg Art come movimento artistico, dall’altro sostenere i diritti dei cyborg, che consistono nell’avere la libertà di progettare se stessi.
Teniamo laboratori in molte università di tutto il mondo e abbiamo illustrato i diritti dei cyborg al convegno South by Southwest di Austin e alla Commissione Europea. Abbiamo anche costituito un’associazione per dare voce alle identità non umane che si chiama Transpecies Society. Infine nel nostro studio di Barcellona abbiamo un laboratorio per la creazione di nuovi ‘sensi’.
Qual è stata finora la risposta della società?
NH: Le reazioni sono state molto variabili. Ho iniziato a circolare per le strade con un’antenna nel 2004 e quindi ho quindici anni d’esperienza delle reazioni sociali. Nel 2004 su questo tema non c’era dialogo: non c’era un luogo in cui parlare di queste cose. Se mi avessero invitato a una manifestazione come questa (per esempio a Design Indaba) non ci sarebbe stata comunicazione, la gente l’avrebbe trovato troppo strano. Era troppo strano, pensavano che non fosse vero. Parecchie persone avrebbero detto che non è possibile udire i colori.
MR: Ciò che è cambiato è il modo in cui le persone si fidano della tecnologia, ovvero ci credono. Quando abbiamo cominciato non c’erano Facebook e Instagram; i telefoni cellulari non avevano fotocamera. Fondamentalmente si trattava ancora di computer, e la tecnologia indossabile non esisteva. Non era argomento di discussione.
NH: Si iniziò a parlarne nel 2012 perché le persone avevano in tasca i cellulari con Internet, e quindi iniziarono a pensare alla “tecnologia da indossare” e a considerarci un esempio di fusione della tecnologia con il corpo umano. Oggi usare la tecnologia per ragioni mediche è cosa accettata, ma le generazioni giovani sono più propense alla sperimentazione sociale, non solo per motivi sanitari. Dato che la tecnologia è diventata parte della nostra vita quotidiana le persone vogliono metterla alla prova e sentono di più l’esigenza di parlarne.
We don’t feel that we “are using” technology, we feel that “we are” technology
MR: Ricordo che la prima volta che Neil si è fatto impiantare un’antenna abbiamo pensato: “Càspita, entro tre anni ce l’avranno tutti!”. Invece oggi la gente la considera ancora una cosa strana. Certe volte si pensa che le cose procedano più rapidamente di quanto realmente succeda.
NH: Nel 2004 pensavamo che nel giro di cinque anni molti avrebbero posseduto nuovi organi e nuovi sensi. Ma non è successo, e ancor oggi non è una cosa normale, le persone non stanno ancora fondendosi con la tecnologia. Tuttavia ci si fondono psicologicamente: molti parlano loro telefono in prima persona, dicono per esempio “Sto esaurendo la batteria” invece che “il mio cellulare sta esaurendo la batteria”. Il che vuol dire che includono la tecnologia nella loro identità, o quanto meno nella loro vita, ma che non è ancora parte del loro corpo.
Quali sono i punti deboli etici del diventare un cyborg? Le vostre guide sono l’arte e la natura, ma siete sempre voi. Un altro cyborg potrebbe avere motivazioni completamente differenti che potrebbero essere dannose per il prossimo?
NH: È una scelta personale, noi non faremmo mai del male a un essere umano né a un animale. Dev’essere qualcosa che ciascuno fa di propria scelta e, sì, questo è il motivo per cui stiamo lavorando sui diritti del cyborg, per essere protetti. Non si tratta tanto di ciò che si ottiene quanto del modo in cui lo si usa. Tutti hanno gli occhi, ma ci sono delle regole su quel che si guarda: il che non significa che non si abbiano occhi. Non credo che ci siano dei vincoli, l’unico limite è il modo in cui si usa la cosa.
Quali sono i diritti dei cyborg?
NH: Se vuoi dare un’occhiata a tutti, sono in rete (per esempio su cyborgfoundation.com). Sono stati scritti insieme con Richard MacKinnon e consistono in cinque punti fondamentali, ma si tratta ancora di un testo aperto. Ne cito alcuni come la libertà di progettare se stessi e il diritto di possedere qualunque tecnologia sia fusa nel proprio corpo. Altrimenti le grandi aziende potrebbero possedere una parte del tuo corpo e, se qualcuno danneggiasse la tua antenna, il tribunale sentenzierebbe che si tratta di un danno materiale e non di un’aggressione fisica. Perciò intendiamo rivendicare il fatto che questi pezzi sono parti del corpo, non dispositivi. Di qui il diritto di decidere chi può entrati nella mente, perché nel corpo abbiamo Internet e contro la pirateria informatica non c’è una vera e propria tutela. Dovremmo essere liberi di decidere a chi sia permesso entrare nel nostro senso connesso in rete.
Come reagisce la legislazione?
NH: Ci invitano a convegni di giurisprudenza. C’è una maggiore consapevolezza e siamo stati invitati da molti paesi differenti: il ministero dell’Intelligenza Artificiale degli Emirati Arabi Uniti ci ha invitato a parlare, facciamo parte di una commissione dell’Unione Europea che discute delle regole della robotica. Gli Stati stanno iniziando a parlarne. Sono pronti. Certi paesi sono più preparati di altri.
Immagine di apertura: Neil Harbisson, foto Hector Adalid